La persona e la sua lettura attraverso il modello della Psicologia Umanistica

LA RELAZIONE CON IL PORTATORE DI HANDICAP E LE MODALITÀ DI LAVORO

nel gruppo classe di G. Santoni* e M. Crescimbene



La relazione con il portatore di handicap e le modalità di lavoro all’interno del gruppo classe.

Una delle parole chiave del nuovo Ordinamento dei Corsi Biennali di Specializzazione è la parola "relazione". Il nuovo stile educativo porterà l’educatore a “relazionare” con l’alunno, a capire il nuovo che c’è in lui attraverso l’ascolto, a capire come e cosa insegnargli: istruzione ed educazione torneranno ad unirsi. Fornire all’insegnante specializzato una base movitazionale e strumentale operativa adeguata che l’aiuti a far fronte alla complessa realtà di bambini e ragazzi svantaggiati e con riflessi su vari aspetti della loro scolarità.
Il dovere e la prassi della “integrazione scolastica” si trovano a rapportarsi con ordini e gradi di scuola caratterizzati da programmi ed assetti organizzativi molto diversi tra loro. In relazione a queste richieste i nuovi programmi puntano al conseguimento di una preparazione culturale e professionale più avanzata; “il Corso nel suo svolgersi e realizzarsi deve dare un esempio concreto del concetto di integrazione” (Ordinanza Ministeriale N.72 del 14/02/96 § 3.5), i seminari previsti rappresentano quindi il momento più alto di integrazione di diverse modalità ed approcci, in cui dei professionisti utilizzando la loro preparazione ed esperienza possono interagire al fine di fornire un’ulteriore voce al dibattito formativo. La scelta del filone Umanistico della Psicologia e della Pedagogia si è inserita proprio rispettando e valorizzando i temi di cui abbiamo precedentemente parlato: la relazione, l’integrazione, la professionalità degli specializzandi. La Psicologia Umanistica, infatti, rappresenta in questo momento, il filone più ricco di studi, approfondimenti ed applicazioni in campo scolastico, educativo e formativo.

La Psicologia Umanistica nasce ufficialmente nel 1962 quando lo psicologo americano A.H. Maslow, insieme ad altri psicologi provenienti da scuole diverse ne stilarono il Manifesto. Il concetto più rivoluzionario della Psicologia Umanistica è l’affermazione della positività della natura umana contrariamente ad altre correnti della psicologia contemporanea.
Carl Rogers, autorevole esponente della corrente umanistica, afferma: “La base della natura dell'uomo ha carattere positivo... Non dobbiamo chiederci chi lo socializzerà perché uno dei bisogni più profondi è quello dell'affiliazione e della comunicazione con gli altri... Nell'uomo non c'é la bestia. Nell'uomo c'è solo l'uomo”.

Usualmente la Psicologia Umanistica viene denominata Terza Forza, termine che esprime la collocazione che essa viene ad assumere in alternativa alla psicoanalisi e al behaviorismo. La Psicologia Umanistica riconosce una sua discendenza ideale dall'Umanesimo con cui ha una sua fondamentale affinità: il bisogno di rivalutare la persona umana di fronte all’invadenza di concezioni rigide e totalizzanti.

Altra diretta radice filosofica della Psicologia Umanistica é l’esistenzialismo che evidenziò, al di là del facile ottimismo e determinismo del razionalismo, dello storicismo e del positivismo, la drammatica condizione umana assediata dalla solitudine, eppure capace di reagire alla disperazione con la sua creatività e le sue scelte. L’idea base dell'esistenzialismo é espressa dal filosofo danese S. Kierkegaard quando affermò che “La verità esiste per l'individuo solo in quanto la traduce in azione” da ciò ne deriva il principio: conoscere attraverso l'azione.
L’esistenzialismo e la psicologia umanistica danno pertanto massima importanza alla persona esistente, all’essere umano nel suo divenire dal latino existere: “venir fuori, emergere”. Sartre, che rese popolare l'esistenzialismo, dette forte risalto alla scelta, assumendola come principale aspetto della vita umana. La scelta rappresenta un altro punto di contatto tra la psicologia umanistica e l’esistenzialismo: come “una filosofia seria deve essere vissuta”. Così gli umanisti mettono in primo piano la persona come l’unica vera fonte di dati, e in quanto individuo che sperimenta, emerge, mediatore attivo della propria esistenza.
I principi fondamentali della psicologia umanistica possono essere riassunti nei seguenti punti:
 

  • un grande rispetto e un alto concetto per l’uomo e tutto ciò che è tipicamente umano
  • il concetto della persona come un tutto, soggetto unico e irripetibile. Riaffermazione dell’unità dei vari momenti dell’uomo (biologico, psicologico, spirituale) in contrapposizione al dualismo cartesiano (anima e corpo come entità separate) e a qualsiasi tentativo di frammentazione della persona che ne distruggerebbe l’identità
  • la fiducia nella forza creativa insita nell’uomo e nella sua capacità di autorealizzarsi (in opposizione alle varie concezioni meccanicistiche e riduzionistiche).

La teoria dell’autorealizzazione come fine ultimo è particolarmente diffusa tra gli psicologi umanisti. Proposta per la prima volta da Karen Horney (1950), da Erich Fromm (1941) ed in seguito da A. Maslow (1954) e da C. Buhler, Viktor Frankl (1967) ritiene che l’esistenza umana si autotrascende e che il fine dell’uomo consiste nel compimento del senso della persona. Alle scuole umanistiche si deve la larga diffusione della dimensione collettiva nell’attività psicoterapeutica attraverso la terapia di gruppo, il gruppo d’incontro e il gruppo esperenziale. J.L. Moreno (1924) fu il primo a sperimentare una terapia basata sull’azione, lo psicodramma. Nello psicodramma i protagonisti devono improvvisare un ruolo partendo da una situazione passata, presente o immaginaria. Nel dramma che essi interpretano proiettano, liberandosene, le loro preoccupazioni, le ansie, i conflitti. Moreno fonda la sua teoria sulla fiducia nell'uomo e nella forza propulsiva della spontaneità creativa. La spontaneità creativa soffocata dai ruoli sociali, può essere recuperata attraverso l’azione scenica.

Negli anni ‘60 le terapie di gruppo si svilupparono con notevole rapidità grazie all’influenza dello psicodramma e furono utilizzate dall’Analisi Transazionale (E. Berne) e dalla terapia Gestalt (F. Perls). La terapia di gruppo viene usata efficacemente, oltre che con pazienti, anche con persone interessate alla crescita personale. Attualmente è impiegata in molti settori: nelle cliniche, negli ospedali psichiatrici, in comunità terapeutiche, nel mondo aziendale, sportivo e professionale. Il metodo di lavoro adottato nei seminari, in base ai principi sopra esposti, ha privilegiato l’esperienza. Durante i lavori sono stati proposti giochi, drammatizzazioni, simulate, al fine di far apprendere in modo migliore, più ricco e duraturo, delle tecniche utili ed applicabili durante il lavoro. I giochi psicologi in gruppo hanno lo scopo di far sperimentare ai partecipanti una particolare forma di apprendimento e, oltre a fornire un primo livello di stimolo, attivano dei processi che consentono di prendere consapevolezza di dimensioni intrapsichiche e relazionali, inoltre facilitano l’acquisizione di nuovi modi di pensare, sentire e relazionarsi. Nel piccolo gruppo per utilizzare la sperimentazione attiva e per stimolare l’emotività si può far ricorso, ad esempio, alla drammatizzazione e al movimento, queste tecniche facilitano l’instaurarsi di un clima affettivo-emotivo. Le regole per l’esecuzione dei giochi sono necessarie per il raggiungimento di due obiettivi fondamentali: il primo è quello di consentire lo svolgimento del gioco stesso; il secondo è quello di facilitare il contatto con le tematiche che il gioco propone. In questo modo le persone impegnate nel gruppo possono permettersi di abbassare le difese, esplorando e cogliendo elementi importanti che le riguardano. Le regole all’interno del gioco consentono la sperimentazione e l’acquisizione di nuovi atteggiamenti e comportamenti in un ambito protetto e in un contesto non pericoloso. Il raggiungimento di questi obiettivi è facilitato dalle caratteristiche peculiari del piccolo gruppo in cui diviene possibile lavorare e stimolare, contemporaneamente ed in modo caratteristico, i tre livelli: quello emotivo-affettivo, quello cognitivo e quello esperenziale.

La struttura stessa dei giochi psicologici offre condizioni che favoriscono l’attivazione di processi dinamici all’interno dei gruppi:

  1. alcune regole e prescrizioni che orientano il comportamento del partecipante
  2. uno spazio ludico in cui fare esperienza insieme ad altre persone
  3. una simulazione della realtà, da cui attingere alcune tematiche privilegiate dal conduttore del gruppo
  4. garanzie di sicurezza per il partecipante: il conduttore proporrà sempre dei giochi che non presentino situazioni troppo ansiogene.

 


Gioco di presentazione: Per iniziare faremo un gioco di presentazione. Visto che siete in tanti (circa 40 persone) vi propongo di fare questo gioco utilizzando carta e penna. Scrivete il vostro nome disponendolo in verticale sul foglio. Ora provate ad associare, ad ogni iniziale, una parola che vi caratterizza. (Dopo una breve pausa). Bene, ora leggiamo le associazioni che avete prodotto con le iniziali del vostro nome. (Dopo la lettura) Come avete potuto sentire, da questo gioco, emergono alcune informazioni su ognuno di noi. Ad esempio: come ci consideriamo, la nostra autostima, l’immagine che abbiamo di noi stessi, i motivi per cui siamo qui, ecc.

Il rifugio antiatomico Il gioco che vi propongo, stimolerà la vostra fantasia. Immaginiamo di essere in un rifugio nucleare, abbiamo provviste di aria, d'acqua e di cibo insufficienti per tutti i presenti...., occorrono delle scelte drastiche, pena la scomparsa di tutti noi. Ora ognuno di voi potrà, attingendo alla propria fantasia, inventare di essere qualcun altro, ciò che vuole, chi vuole... e, trovare un buon motivo per non essere cacciato dal rifugio. Ora lascio a voi la parola.

L.: sarei un corpo che produce energia.
E.: farei il moderatore, il tranquillizzatore.
A.: se ci sono dei bambini o dei giovani uscirei, altrimenti darei poco fastidio consumando l’ossigeno in modo parsimonioso.
L.: non posso ammettere che qualcuno possa morire. Non accetto la logica “io vivo, tu muori”.
A.: sono madre di due bambini, se loro sono fuori esco anch'io.
M.: sarei una spugna e tutti gli altri goccioline d’acqua.
C.: farei la cuoca.
V.: uscirei alla ricerca di sostentamento per me e per gli altri.
T.: sarei uno scienziato capace di trovare il modo per far sopravvivere tutti.
C.: O tutti dentro, o tutti fuori.
L.: cercherei di risolvere il problema.
P.: non mi importerebbe niente di niente.
A.: mi sacrificherei io.
G.: sarei un pallone per far giocare le persone.
A.: sarei medico che cura tutti, bambini, adulti.
G.: farei l'intrattenitore per sollevare il morale.
R.: farei l’infermiera.
C.: sarei morta prima che accada.
R.: dipingerei le pareti, farei la pittrice, per rallegrare l'ambiente.

Come potete notare ognuno di voi ha espresso delle motivazioni all'interno del gioco, possiamo raggupparle: alcuni hanno espresso un certo "rifiuto delle regole" del gioco; altri hanno cercato di "valorizzarsi"; altri hanno espresso in questa situazione frammenti della loro vita, mostrando delle loro "reali abilità" ed offrendole al gruppo; altri si sono lasciati prendere dall'ansia ed hanno detto "sarei già morta", "mi sacrificherei".
Come vedete, quindi, questo gioco mette in rilievo la nostra capacità di avere autostima, di ritrovare la motivazione, e serve a sperimentare noi stessi in una situazione ansiogena.

Il cieco e la guida Questo gioco si chiama il cieco e la guida. Lavoreremo in coppie. A turno uno di voi sarà la guida e l’altro il cieco. La consegna che do alla persona che ha il compito di guidare è quella di far esplorare al cieco questa stanza. Chi si sente di provare? Si formano 3 coppie.
Dopo circa 4/5 minuti il conduttore dice di cambiare i ruoli, così chi prima guidava ora diventa il cieco. Dopo altri 4/5 minuti di esplorazione della stanza il conduttore ferma il gioco. Invita a sedere i partecipanti e apre la discussione chiedendo ad ognuno come si è sentito sia nei panni della guida che nei panni del cieco.
Dalla discussione, allargata successivamente a tutto il gruppo, emergono vissuti e stimolanti temi di lavoro: la responsabilità, l’affidarsi, le paure (paura del buio, paura di guidare, stati di apprensione), la relazione con il portatore d'handicap, il contatto, l’affettività. In particolare la discussione si incentra sul tema della responsabilità (capacità di dare assistenza, "peso nel dare assistenza") e sul tema dell’affidamento. Alcune persone rilevano infatti che quando erano nel ruolo di cieco, pur sentendosi guidate abbastanza bene dal loro compagno, non ricevevano “calore”. La comunicazione della guida era precisa ed attenta, ma telegrafica e, in parte, svuotata di contenuti affettivi.

A conclusione dei lavori della prima giornata, i conduttori, propongono i seguenti temi per l'approfondimento scritto.

  • la presentazione di se stessi ed il modo di presentarsi, in riferimento al gioco degli acronimi del proprio nome
  • la motivazione, in riferimento al gioco del rifugio antiatomico.
  • la fiducia e la relazione, in riferimento all’esperienza del gioco il cieco e la guida
  • l’ascolto attivo, dove per ascolto attivo si intende una modalità di ascoltare l’altro lasciandogli il tempo di esprimere ciò che sente e cercando di interpretare cosa ci sta comunicando al di là delle parole. Rispetto all’ascolto attivo si chiede di identificare i momenti del lavoro in cui questa modalità è stata messa in atto, oppure non lo è stata e dove sarebbe stato opportuno adottarla.
  • il messaggio-Io, dove per messaggio-Io si intende una comunicazione nei confronti dell’altro che informa su come ci si sente in una particolare situazione. Ad esempio: “quando tu non vuoi lavorare, io mi innervosisco”. Anche per il messaggio-Io, si chiede di provare a vedere dove e quando è stato utilizzato nel lavoro svolto o dove sarebbe stato opportuno utilizzarlo
  • il problem solving. La modalità cioè di risolvere problemi, in gruppo, attraverso uno scambio libero di idee fino ad arrivare ad una soluzione. Come per gli altri temi anche qui si chiede di vedere dove e come sarebbe stato opportuno utilizzare il problem solving in relazione al lavoro svolto.

All'inizio della seconda giornata di lavori, i conduttori propongono ai partecipanti degli stimoli che presentano delle foto (che rappresentano un abbraccio o una relazione tra due persone) e la riproduzione di una cartolina (senza disegno). Il compito dato è quello di scrivere nel caso della foto un dialogo di poche battute tra i due personaggi della figura e nel caso della cartolina di scriverla alla persona portatrice di handicap conosciuta durante il tirocinio, scrivendole sia un breve messaggio che disegnando l’immagine. Dalla lettura dei lavori si evidenziano alcuni vissuti dei partecipanti già emersi, in parte, nella giornata precedente.

Si passa alla parte centrale del lavoro che prevede una simulata in classe, dove ad alcuni volontari tra i partecipanti si chiede di interpretare i seguenti ruoli: insegnante di classe, insegnante di sostegno, alunno portatore di handicap, altri alunni. Partecipano alla simulata:

LF., nella parte di una ragazza sorda di 14 anni;
G., nella parte di una alunna;
LM., nella parte di un alunno;
C., nella parte di insegnante di classe
LS., nella parte dell’insegnante di sostegno.

Non appena l’insegnante di classe (C.) inizia a fare lezione, LM, che fa la parte di un alunno, dice che non vuole sedere vicino a LF. L’insegnante di classe e l’insegnante di sostegno tentano in tutti i modi di convincerlo ma non ottengono risultato. LM si siede lontano da LF vicino a G. Subito aggiunge che non vuole proprio fare lezione. L’insegnante di classe e l’insegnante di sostegno provano a coinvolgerlo proponendogli altre attività (disegnare, giocare in giardino), ma LM. è irremovibile. In particolare non vuole parlare con l’insegnante di sostegno perché dice “tu non sei la mia insegnante, sei l’insegnante di quella là”, indicando LF.
Vengono invitati i colleghi del gruppo ad intervenire per cercare di risolvere la situazione. Entrano nell’azione E., nei panni di un insegnante di educazione fisica e N., che doppia l’insegnante di sostegno. E. invita LM. a giocare a palla a volo in palestra, ma non ottiene l’assenso da parte del ragazzo. N., rivolgendosi a LM., gli dice “ho bisogno del tuo aiuto” e lo invita a disegnare con lei e, sembra in un primo momento, ottenere un migliore risultato.

La situazione iniziale di empasse non si risolve e nella classe l’insegnante non riesce a fare lezione. LF., si sente trascurata e dice comunicando a gesti con l’insegnante di sostegno “che cosa stiamo facendo qui?”. Nella classe ci sono ormai più insegnanti che alunni. I conduttori, nel tentativo di mettere un pò di ordine, invitano una persona del gruppo ad interpretare il ruolo del bidello, affidandogli il compito di entrare in classe per chiamare dal Preside l’insegnante di educazione fisica e l’insegnante di sostegno.

Si passa alla discussione dell’esperienza. I conduttori fanno notare come non si sia riusciti a superare il problema posto all’inizio della simulata da LM. E chiedono a tutti coloro che hanno partecipato all’azione di verbalizzare il loro vissuto. Anche in questa fase si incontrano delle difficoltà perché, probabilmente, coloro che hanno interpretato un ruolo nella simulata si sentono giudicati dagli altri colleghi del gruppo e dai conduttori stessi. I conduttori invitano quindi i personaggi a verbalizzare il loro vissuto rispondendo alla domanda “Come mi sono sentito durante la simulata?”.

LF.: mi sono sentita emarginata, l’attenzione era tutta su LM., io non esistevo. Mi sono sentita nervosa.
LS.: ero a disagio. Come mi capita di essere nel lavoro a scuola, forse anche di più. LM. era testardo e irremovibile. Non c’era via d’uscita nella situazione.
E.: ero a disagio. Quando il bidello mi ha chiamato fuori mi sono sentito sollevato.
C.: ero incapace di fare lezione.
LM.: mi sono sentito bene. Potevo fare quello che volevo.
G.: mi sentivo come un cuscinetto tra i due (tra LM. e LF.).
Bidello: su invito dei conduttori ho messo fine alla disputa. Ma come insegnante, se avessi dovuto intervenire, avrei cercato in qualche modo di convincere LM.
N.: con il mio intervento ho cercato di dare affetto a LM.
Gli altri interventi del gruppo tendono soprattutto a cercare soluzioni, a proporre qualcosa che avrebbe potuto far uscire dalla situazione rappresentata nella simulata.

I conduttori evidenziano come uno degli errori più frequenti commessi dagli insegnanti è quello di una eccessiva attivazione. Si tende, spesso, a trovare subito una soluzione senza riflettere su cosa l’alunno sta chiedendo e su quali siano le sue reali esigenze. Vengono poi elencati una serie di comportamenti che secondo Thomas Gordon (1981), risultano inadeguati per costruire una buona comunicazione: ordinare, avvertire, minacciare, esortare, moraleggiare, consigliare, suggerire soluzioni, persuadere con argomentazioni logiche, giudicare, criticare, biasimare, complimentare, approvare, umiliare, ridicolizzare, interpretare, analizzare, rassicurare, simpatizzare, informarsi, interrogare, schivare, deviare, beffarsi. Il gruppo prende coscienza con chiarezza che gran parte dei comportamenti visti nella simulata sono inadeguati per risolvere la situazione e smette nel contempo di cercare soluzioni. Ciò consente ai corsisti di prendere coscienza della incapacità a risolvere il conflitto se ci si ostina a cercare delle soluzioni precostituite.

I conduttori propongono al gruppo una possibile via di uscita. Vengono ripresi alcuni concetti introdotti in chiusura della prima giornata e meglio esplicitati sull’esempio dell’esperienza appena vissuta.

L’ascolto attivo esprime il linguaggio dell’accettazione e consta di quattro momenti:

  • l’ascolto passivo (silenzio) che nel nostro caso avrebbe permesso a LM. di esporre quali erano le sue motivazioni, il perché non voleva fare lezione. Ciò che la madre gli aveva detto riguardo gli handicappati: “se stai seduto vicino ad un handicappato non impari niente”;
  • messaggi di accoglimento e inviti calorosi, che nel nostro caso avrebbero permesso a LM di comunicare, senza conflitti, quali erano le sue ragioni;
  • Ascolto attivo. Riflessione da parte dell’insegnante sul messaggio dell’alunno. Recependolo solamente, senza emettere messaggi suoi personali. Nel nostro caso questo avrebbe fatto sentire a LM. l’attenzione da parte dell’insegnante, non vittima di valutazioni negative. LM. avrebbe potuto sentire l’accettazione e la comprensione da parte dell’insegnante e ciò gli avrebbe consentito di sentire fiducia in se stesso e negli altri per iniziare un processo di cambiamento, verso la soluzione del problema. L’ascolto attivo in sintesi non rispecchia le parole, ma i sentimenti. Permette all’insegnante di capire cosa un alunno sta chiedendo e di che cosa ha bisogno realmente.

Il messaggio-Io. Questo è un messaggio indiretto, non dice espressamente al ragazzo ciò che non va. Il messaggio-Io non esprime alcuna valutazione sulla persona che compie l’azione, ma la pone di fronte agli effetti del suo atto e ai sentimenti che provoca negli altri. Nel nostro caso, l’insegnante di classe o l’insegnante di sostegno avrebbero potuto dire a LM.: “il fatto che tu non voglia fare lezione vicino a LF. mi fa sentire male, perché in classe si interrompe quella armonia necessaria per lavorare”. Il docente comunica i propri sentimenti all’allievo. Non più quindi “tu sei”, ma “io sento”. Chi teme di mettersi a nudo rivelando i propri sentimenti, ci dice Gordon, si rassicuri: l’autenticità non danneggia. L’alunno sentirà che l’insegnante gli comunica un suo vissuto personale con franchezza ed onestà, e non assumerà atteggiamenti di difesa. Contemporaneamente questo tipo di messaggio indica all’alunno un comportamento inaccettabile, il problema ridiventa dell’allievo e l’insegnante potrà passare all’ascolto attivo o al problem solving.

Il problem solving. Quando si presentano dei problemi per cui trovare una soluzione è un fatto abbastanza complesso, è bene usare la tecnica del problem solving, usata nella ricerca scientifica ed efficace per dirimere le controversie tra due o più persone. Questa tecnica, schematicamente, consta di sei tappe:

  • esposizione chiara dei termini del problema (LM. non vuole fare lezione vicino a LF)
  • proposta di soluzioni da parte di tutti
  • considerazione degli aspetti negativi e positivi di ogni proposta
  • eliminazione delle soluzioni non idonee e scelta delle più adatte per risolvere la situazione
  • predisposizione dei mezzi di attuazione della soluzione scelta
  • verifica dei risultati ottenuti.

Nel nostro caso il problem solving avrebbe potuto essere attuato utilizzando il circle time. L’insegnante avrebbe potuto far sedere tutti in cerchio proponendo di discutere tutti insieme il problema sollevato da LM., moderando la discussione al riguardo.

Viene riproposta la simulata precedente, con l'indicazione per l'insegnante di classe e l'insegnante di sostegno di cercare di attuare quanto detto.

LM ripropone il problema negli stessi termini della simulata precedente. Questa volta però LS e C sono pronte ad ascoltare le motivazioni dell’alunno (ascolto attivo) e gli rispondono con i loro vissuti (messaggio-Io), senza colpevolizzarlo. Riescono, con poca difficoltà, a far sedere tutti in circolo e iniziano a parlare del problema “LM non vuole fare lezione seduto vicino a LF”.

Ora il clima del gruppo è decisamente cambiato. C’è un’atmosfera di fiducia e di partecipazione attiva. Ciò che è cambiato è soprattutto l’atteggiamento verso se stessi ed i propri errori. Si può sbagliare e rimediare, riflettendo sul proprio comportamento e attuando delle semplici strategie per comunicare meglio anche nelle situazioni più difficili.

I giochi e le tecniche sono adatti ai ragazzi e possono essere eseguiti a scuola. I docenti si trovano spesso ad affrontare l'apatia, l'aggressività, l'instabilità, l'iperemotività tipiche dell'età dello sviluppo. E poiché nel processo di apprendimento vi è una stretta interrelazione tra il settore cognitivo e quello affettivo, possedere degli strumenti che promuovano il benessere psicoemotivo dei propri allievi è di valido aiuto per l'insegnante, soprattutto in presenza di alunni "difficili".
I giochi proposti avviano i ragazzi ad avere una positiva e realistica immagine di sè e facilitano l'instaurarsi di gratificanti e corretti rapporti con gli altri. L'insegnante potrà scegliere un'aula vuota o con pochi arredi. Se questo non è possibile basterà accostare i banchi alle pareti e lasciare uno spazio libero centrale in cui mettere le sedie in cerchio. Il conduttore, si siederà con loro. Sarà opportuno che nella stanza siano presenti persone esterne all'attività, semplici spettatori o curiosi creerebbero un clima artificioso e di poca sincerità nei ragazzi cui non piace sentirsi osservati. Le ore migliori per il lavoro di gruppo sono quelle centrali della mattina; le ultime se si ha una classe a tempo pieno o a tempo prolungato. Saranno proficui due o tre incontri settimanali e basterà disporre di un'ora di tempo.

Inizialmente, alcuni ragazzi, potranno reagire alle proposte del conduttore ridendo o disturbando. Sarà il loro modo di difendersi da un lavoro cui non sono abituati e che porta alla luce aspetti della loro persona ancora sconosciuti. Il conduttore cercherà di sostenere i ragazzi e comunicherà loro la possibilità di astenersi dal partecipare ai giochi, invitandoli comunque a rimanere presenti nell'aula. Il trainer dovrà evitare commenti scoraggianti, svalorizzanti; nel caso in cui sia l'insegnante di classe a condurre i giochi, egli dovrà essere ben attento alla maniera di interagire con i partecipanti e a porsi il problema della continuità o no di questa con il proprio stile di docenza. Battute tipo: "sei sempre il solito", "se lo sapessero i tuoi...", "tu si che sei capace!", "non fare lo stupido!"; certamente propongono un tipo di relazione discutibile nelle attività in classe, ancora di più non faciliteranno le attività di gruppo. Nei giochi psicologici è utile aiutare i bambini ed i ragazzi ad agire "come se", si dovrà fare come se si mangiasse, come se si dormisse, come se si picchiasse, ecc., evitando di agire le emozioni, i sentimenti,

...

Alla fine di ogni gioco proposto è utile far verbalizzare l'esperienza dei ragazzi, rispettando e chiedendo rispetto ai compagni su quanto viene espresso. Dopo le prime volte, questo lavoro entusiasmerà gli alunni, essi stessi apprenderanno una maniera di comportarsi confacente agli scopi. In conclusione vorremmo ricordare come la Pedagogia Umanistica intenda valorizzare gli aspetti emotivi dello sviluppo dell'allievo e non solo quelli cognitivi. Ciò risulta particolarmente opportuno nei confronti dell'allievo svantaggiato, educare con l'affettività e all'affettività, il rispetto e l'accettazione del bambino, sia per i suoi aspetti positivi che per quelli negativi, la fiducia nella natura umana, il non porre limiti cronologici alla maturazione, sono presupposti educativi che sicuramente determineranno un favorevole clima educativo anche per i meno dotati.

Giancarlo Santoni
Massimo Crescimbene

*psicologi, spec. psicoterapia


BIBLIOGRAFIA:

C. Bulher - M. Allen, Introduzione alla psicologia umanistica, Armando 1976.
T.J. Carratelli, A.M. Lanza (a cura di) La relazione nella scuola: aspetti formativi e trasformativi. Borla 1996.
D. Francescato, A.Putton, S.Cudini, Star bene insieme a scuola, La Nuova Italia Scientifica editore 1990.
B. Giordani, Psicoterapia umanistica, Cittadella editrice 1988.
K. Hoorney, Autoanalisi, Astrolabio 1984.
S. Manes (a cura di), 83 giochi psicologici per la conduzione dei gruppi. Franco Angeli 1997.
A.H. Maslow, Verso una psicologia dell’essere, Astrolabio Ubaldini editore 1971.
A.H. Maslow, Motivazione e personalità, Armando 1982.
J.L. Moreno, Manuale di psicodramma, Astrolabio 1985.
Ordinanza Ministeriale N. 72 del 14 Febbraio 1996.
C. Rogers, La terapia centrata sul cliente, Martinelli editore 1970.
E. Zamponi (a cura di), I draghi locopei. Einaudi
1) Contributo già pubblicato in: P. Impara (a cura di) “Itinerari formativi dell’insegnante specializzato” ED. Tecnodid, Napoli 1998