Cambiamenti nel lavoro con il bambino e l'adolescente: spazi insaturi di pensiero e azione
CAMBIAMENTI NEL LAVORO CON IL BAMBINO E L'ADOLESCENTE
spazi insaturi di pensiero e azione di Giancarlo Santoni
*Intervento al convegno “Tra i fare e il pensare” Monterotondo (RM) 23-24 settembre 2005 organizzato da Coop Soc ISKRA, sul tema: Cambia-menti nel lavoro con il bambino e l’adolescente: spazi insaturi di pensiero e azione.
Vorrei ringraziare gli organizzatori di questo convegno per il loro impegno e per la possibilità che stanno fornendo a tutti noi. Una riflessione attenta e circostanziata sugli interventi a favore dei minori è sempre più necessaria per calibrare pensiero e azione professionale, per far in maniera che da un pensiero forte emerga un’agire consapevole.
Il contributo che sto per presentare emerge da circa cinque anni di supervisione al lavoro degli educatori del Servizio per l’Integrazione e il Sostegno ai Minori in Famiglia (S.I.S.Mi.F.) nel Comune di Roma svolti in tre realtà del privato sociale operanti in tre diversi municipi. In questi Servizi si impegnano professionalmente gli educatori professionali, una figura fondamentale nei servizi socio-sanitari e socio-assistenziali, la cui presenza è sempre più indispensabile per la costituzione e la realizzazione di progetti educativi rivolti a persone in situazione di difficoltà.
I bambini e gli adulti che entrano in contatto con l’educatore professionale sono persone che generalmente hanno vissuto esperienze di maltrattamento o deprivazione affettiva, culturale, economica, ecc... Gli effetti del maltrattamento costituiscono una minaccia gravissima e crescente all'interno della società e sono ritenuti unanimemente all'origine della psicopatologia e del comportamento sociale deviante. Tutti gli studi sull’età evolutiva ed anche quelli in ambito psicopatologico e psicosociale confermano che la presenza affettiva dei genitori comunica al bambino una sicurezza della quale egli non può assolutamente fare a meno e della quale non può essere espropriato, senza che ciò determini una disfunzionalità dello sviluppo emozionale e allo stesso tempo un depauperamento del carattere e della personalità, sia da un punto di vista cognitivo che affettivo.
Bambini “maltrattati”.
Per molti genitori la mancanza di capacità nell’accudimento dei propri figli non è una scelta consapevole, ma è la conseguenza di un disagio sociale e psicologico, o di una psicopatologia che limita le funzioni personali e che impedisce o compromette seriamente la presa in carico di un altro essere umano con bisogni diversi dai propri.
Le cure di cui ha bisogno un bambino derivano da bisogni sia qualitativi che quantitativi e da caratteristiche specifiche legate alla fase evolutiva.
Per poter ascoltare e riconoscere i bisogni di un bambino in arrivo i genitori debbono, sin dalla gravidanza, riuscire a creare per lui uno “spazio mentale”. Molti studiosi insistono su questo pre-requisito e sulla sua importanza: un bambino inizia a vivere prima nella mente dei genitori e solo successivamente trova spazio nella realtà del concepimento, della gestazione e della nascita. Lo spazio psichico fatto di attese, di fantasie, di sogni che i due genitori preparano per il bambino diverrà determinante per l’accoglimento della nuova vita, sarà lo spazio che poi garantirà l’attivazione della funzione genitoriale in duplice maniera: contribuirà alla formazione dell’immagine del figlio e a quella del genitore.
Per poter offrire uno “spazio mentale” a qualcuno che ancora non c’è è necessario aver raggiunto una propria maturità a livello umano, fatta di ascolto di se stessi, dei propri bisogni e di conoscenza ed accettazione del proprio passato. L’attesa di un bambino mobilita nei genitori un processo di deintegrazione e riorganizzazione che richiede molta disponibilità affinché evolva positivamente. I genitori hanno l’opportunità di riaffrontare e sciogliere nodi del passato procedendo nel proprio percorso di individuazione e preparandone uno nuovo per il proprio figlio oppure, se le condizioni o le capacità dei genitori non sono adeguate, può rappresentare la riconferma dolorosa di quelle difficoltà, rafforzando le difese ed allontanando la consapevolezza. Le problematiche inconsce non accolte ed elaborate dall’individuo finiscono per influenzare profondamente la sua capacità di riconoscersi in un nuovo ruolo e di riconoscere l’altro. L’attesa di un figlio e la gravidanza fungono così da “periodo critico”1 nella storia delle persone, durante il quale si hanno opportunità nuove di comprendere meglio la propria storia, di compiere un passo significativo nell’evoluzione personale e di preparare un posto a chi sta arrivando, diversamente queste opportunità si possono perdere anche per sempre.
1 Con l’espressione “periodo critico” ci si ricollega all’utilizzazione che ne fanno gli etologi, ma anche alla provenienza etimologica (Krìno: scelgo, discrimino, separo, decido) e a quella di W.R. Bion. “Crisi” come momento di cambiamento non necessariamente inteso negativamente; più propriamente l’attesa di un bambino è quel momento critico in cui si è sostenuti da capacità innate che hanno bisogno però della recettività e dell’opera di facilitazione della persona.
In molte realtà osservate nel lavoro di supervisione in questi anni si sono presentate situazioni limite, in cui lo spazio mentale per il bambino non è stato mai creato, quelle dove il bambino non è stato mai pensato e quindi desiderato. Sono queste le situazioni dove prendono vita le forme di incuria più gravi come l’abbandono alla nascita. Vari bambini seguiti nei servizi dei tre Municipi sono stati, di fatto, affidati alle cure di persone diverse dai genitori: nonni, zii, vicini di casa. Senza la possibilità di essere pensati ed accolti, i bambini sperimentano una carenza di base molto forte. Altre situazioni riscontrate nel servizio ci hanno messo in contatto con genitori sofferenti ed afflitti da varie patologie: psicosi, depressioni gravi, tossicodipendenze, alcoolismo, disturbi del controllo delle pulsioni, perversioni e personalità borderline (Fordham, 1944/69,1973, 1976; Montecchi, 1998). Queste ultime possono essere configurate tra le più insidiose per il loro carattere mimetico, per il loro progressivo incremento numerico e per il fatto che costringono bambino e famiglia a condizioni di vita psicotizzanti.
L’esperienza degli Educatori
Accostare l'educatore professionale alla problematica del maltrattamento infantile e della deprivazione non ha lo scopo di volerlo investire in proprio di una responsabilità psicoterapeutica che non gli compete affatto, quanto di permettergli di entrare in contatto con i vissuti emotivi che attraversano la mente del bambino deprivato, di conoscerne il tipo di pena psichica e di dare un senso alle risposte difensive, spesso così drammatiche e disperate, che tali bambini mettono in atto, con un tentativo estremo di arginare l'angoscia che li pervade. In ambito psico-socio-educativo vanno acquistando sempre più senso ed efficacia interventi di figure professionali diverse per formazione e per specificità, ben coordinati tra loro. Anche prendendo in considerazione la prospettiva specificamente psicopatologica, sempre più si riscontra la fondatezza di approcci diversificati alle difficoltà del minore, di prospettive e modalità di intervento che abbiano la finalità di sostenere il bambino e che si pongano l’obiettivo di consentire un’elaborazione graduale dei vissuti, di aiutarlo nell’affrontare una sorta di micro-traumatismo diffuso, piuttosto che interventi molto specifici e settoriali o di “elaborate interpretazioni esaustive” (Ferro 2002, pag. 5), fantasticate spesso (ed in certi ambienti) come la panacea di tutti i mali.
L’équipe che prende in carico il minore deve poter contare su un lavoro di supervisione svolto da professionisti formati adeguatamente, con al loro attivo una triplice esperienza formativa e professionale, in ambito psicosociale, psicoterapeutico e di supervisione. Un servizio strutturato secondo questi criteri può aiutare l'educatore a capire in cosa può consistere un lavoro con bambini apparentemente senza speranza e come affiancare in modo prezioso la loro opera di educatori professionali al lavoro terapeutico. Mentre lo psicoterapeuta non può assumere nella relazione con il paziente un ruolo genitoriale, o almeno non può farlo sic et simpliciter nel “reale” della stessa (Marcon 1999, pag. 15), l'educatore professionale, che interviene all'interno del nucleo familiare e/o accoglie il bambino nelle istituzioni, può svolgere questa funzione e l’aver ben chiaro il suo ruolo lo mette nella condizione di poter aiutare il bambino accompagnandolo anche nella prospettiva di un delicato percorso terapeutico. L'educatore può avere un peso decisivo nel buon esito degli inserimenti, ma perché tutto ciò sia possibile sono necessarie molteplici condizioni.
Anzitutto l'educatore deve avere la capacità emotiva di sintonizzarsi con i bisogni del bambino e con quelli di tutte le persone che si occupano e si occuperanno di lui in seguito: una capacità certamente che non si può apprendere solo dai libri, ma dall'esperienza del lavoro (Marcon, ibid.), dalla formazione personale e professionale, dall'attività continua e costante di supervisione. Tuttavia un primo passo di questo lungo iter formativo dell'educatore può partire dalla scoperta, sia pure teorica, di quanto variegato e complesso sia il mondo emotivo di un bambino. Quest’ultimo può essere stato sottoposto a maltrattamenti di vario genere all'interno della famiglia, accudito in maniera insufficiente, può aver avuto genitori con rilevanti disturbi psichici, essere stato precocemente sottratto all'amore dei propri cari, o addirittura non averne mai avuto. Il lavoro di osservazione, assieme alla ricostruzione della storia passata del bambino, possono risultare determinanti per apprendere dall'esperienza a riconoscere i sentimenti che attraversano la mente di un bambino deprivato e per comprendere le risposte emotive che essi stessi possono risvegliare negli adulti che si occupano di lui.
Nell'ambito del maltrattamento infantile, si può registrare anche il fenomeno dell'abuso di origine sessuale. Gli avvenimenti riportati ormai quotidianamente dalla cronaca ci riferiscono di minori maltrattati, abusati o trascurati spesso proprio all'interno della famiglia di appartenenza, da quei genitori o da quei familiari e conoscenti che avrebbero il compito di prendersene cura tutelandone il benessere fisico e affettivo e garantendo loro un ambiente propizio ad un processo di crescita (cfr. a questo proposito Emiliani, Simonelli, 1997, p. 324).
Rispetto a questa problematica, all'educatore professionale, unitamente alle altre di figure dell’équipe, spetta il difficile compito di interrompere la continuità di violenza e di silenzio che si perpetua nel tempo attraverso le generazioni, ma non solo. All'educatore viene richiesta non soltanto una funzione sociale e riabilitativa: il suo intervento può essere davvero efficace soltanto se gli è ben chiaro il quadro di riferimento all'interno del quale si attua il fenomeno, i danni affettivi che ha prodotto sul bambino e, soprattutto, se egli è in grado di offrire al bambino stesso un aiuto empatico, capace di limitare l'uso delle identificazioni e delle proiezioni o comunque in grado di produrre una consapevolezza delle medesime. A fronte di situazioni così penose, all'educatore spetta l'arduo compito di non schermarsi davanti all'angoscia suscitata dagli eventi, né di immedesimarsi in tali situazioni al punto da non riuscire più a riconoscere chi è il bambino deprivato e maltrattato di cui ci si sta occupando: quello che si ha di fronte o se stessi.
Le radici del maltrattamento affondano nella storia familiare di chi mette in atto simili comportamenti e si perpetua in un ciclo transgenerazionale che sembra non poter mai avere termine (Kaes et al. 1995; Ferro 2002). La comprensione dei meccanismi che inducono il genitore ad adottare simili condotte violente e aggressive verso i propri figli ha sul piano operativo una duplice funzione: da un lato offrire sostegno, ascolto e accoglienza al genitore stesso e a tutto il nucleo familiare, dall'altro svolgere una funzione vicariante nei confronti dei bambini, nel tentativo di contenere i danni da loro subiti, di inibire la "coazione a ripetere" e di tentare un recupero sul piano dello sviluppo.
Sebbene l'abuso sessuale sia uno dei sottotipi di maltrattamento maggiormente studiato, a causa dei danni tangibili che esso determina e del tipo di mobilitazione che richiede (cure mediche, psicologiche e intervento giudiziario), molti studiosi e professionisti sono indotti a ritenere che la trascuratezza e la deprivazione affettiva sono da considerarsi come i maggiori responsabili dei problemi di sviluppo cognitivo ed affettivo e di insuccesso scolastico del bambino (cfr. Eckenrode, Laird, Doris, 1993).
Non c’è dubbio che il maltrattamento e più in particolare la deprivazione affettiva segnino negativamente lo sviluppo del bambino. Vediamo ora in che modo l'esperienza traumatica che il bambino subisce - sia essa maltrattamento nelle forme di abuso sessuale, perdita dei genitori o deprivazione affettiva - segni un arresto dello sviluppo emotivo del bambino e ne condizioni la vita futura.
Le conseguenze.
La psicopatologia che manifestano i bambini maltrattati è vasta e differenziata, frequentemente vengono rilevate patologie delle funzioni alimentari, disturbi del comportamento, veri e propri quadri psicotici, perversioni, disturbi di personalità di tipo borderline, disturbi della simbolizzazione, difficoltà di apprendimento (Montecchi, 1998). La mancanza di una “fiducia di base” e di un senso di sé stabilizzato generano nel bambino una personalità strutturata secondo un “Falso Sé” (Winnicott, 1960).
La modificazione del tipo di accudimento da parte degli educatori e di quanti altri si occupano adeguatamente del bambino consente di sovvertire lo schema vittima-persecutore e di porsi in modo innovativo. Questo arresto della "coazione a ripetere" è possibile nella misura in cui il bambino ha l’opportunità di incontrare una persona capace di dare senso e significato a quanto è successo nella sua vita passata e a quanto altresì si verifica qui ed ora nella relazione che li unisce.
Nel 1936 D. W. Winnicott scrive: “… le difese del bambino sono in grado di sopportare quasi tutto quello che la vita può presentargli, a patto che sia in un ambiente affettuoso e che venga riconosciuta l'importanza del fattore tempo. Ma la mancanza d'amore con la coincidenza di diversi traumi possono provocare danni permanenti" (p. 84). Nel 1951 lo stesso autore afferma: "Sappiamo che il bambino deprivato è una persona malata, una persona la cui storia passata è stata tutta un'esperienza traumatica aperta (...)” (D. W. Winnicott, 1951, p.225).
Ed ancora: “La definizione completa di deprivazione comprende contemporaneamente il gesto e i ritardi, il trauma del momento e la condizione traumatica che si prolunga (...)” (D. W. Winnicott, 1956, p. 157).
L’autore non ha dubbi nell'attribuire ai fenomeni traumatici un’importanza di primissimo piano rispetto al venir meno della salute mentale. Fu solo l'esperienza della guerra che in modo stupefacente gli fece cogliere il rapporto tra deprivazione e delinquenza.
“Senza negare in alcun modo il danno fisico che può derivare ai bambini dalle incursioni aeree e senza voler minimizzare quello che gli può provenire dall'assistere alle scene di panico tra gli adulti o a reali distruzioni, si può continuare ad attenersi con vantaggio alla convinzione comune secondo la quale è da privilegiare l'unità della famiglia rispetto a qualsiasi considerazione di opportunità e di utilità. Infatti, l'unità della famiglia comunica al bambino una sicurezza di cui egli non può fare a meno, e di cui il bambino piccolo non può essere privato senza che ciò interferisca con il suo sviluppo emozionale e gli causi un impoverimento della personalità e del carattere” (D. W. Winnicott, 1939a, p. 19-20). Le famiglie dei minori seguiti nel S.I.S.Mi.F. sono famiglie che presentano vari tipi di difficoltà e forme di rottura del rapporto: l’abbandono della famiglia da parte di uno o di entrambi i coniugi, la separazione formalizzata o di fatto, la poligamia più o meno accettata da parte di uno o di entrambi i coniugi, soprattutto la presenza di un atteggiamento scarsamente responsabile nei confronti dei figli e della loro educazione.
Durante la supervisione il lavoro degli educatori è stato contrassegnato in maniera sistematica dal tentativo di comprendere e di tenere costantemente presenti i meccanismi ambivalenti che si riscontrano nel lavoro a domicilio. A tale proposito è stato frequentemente rivolto agli educatori del S.I.S.Mi.F. l'invito a “considerarsi la conferma vivente ed operante del fallimento dei genitori” e quindi ad essere attenti nell’interpretare atteggiamenti troppo aperti e confidenziali.
I genitori di questi bambini hanno frequentemente adottato nei confronti degli educatori e delle équipes dei curanti un atteggiamento che tendeva ad essere invischiante e compiacente, o schivo e rifiutante; tentavano così di neutralizzare la rabbia nei confronti di chi si prendeva cura dei figli. Questi “genitori a metà” manifestavano così la difficoltà della loro scelta: aver messo al mondo dei figli e allo stesso tempo sentirsi lontani ed inadeguati nei confronti del compito genitoriale. E’ ovvio che un atteggiamento falsamente aperto e compiacente può risultare più ingannevole di uno schivo e aggressivo.
Quando i genitori utilizzano l’aggressività come preferenziale via di comunicazione con l’altro è probabile che il minore assimili tale modalità relazionale nel proprio repertorio comportamentale. Il genitore maltrattante consuma la maggioranza delle sue relazioni con il bambino o come “aggressore” o come “vittima” (Montecchi, 1998), la presenza del bambino evoca infatti nel genitore affettivamente deprivato due sentimenti: quello della debolezza e quello del possesso. È importante tenere sempre presente che a fronte di un bambino deprivato ci sono dei genitori deprivati. L’esperienza della deprivazione affettiva dei genitori genera nei figli la sensazione che ciò che si riceve sia sempre negativo e che dalla vita e dal mondo si possano avere solamente minacce. I genitori dei bambini maltrattati hanno avuto a loro volta un’esperienza di “non contenimento” che ha impedito loro di sviluppare questa capacità nei confronti dei loro figli: hanno inoltre una limitata capacità di interazione affettiva con gli altri, una spiccata facilità nell’assumere condotte manipolatorie e mistificanti, una scarsa fiducia in se stessi, una grave depressione e un vissuto costante di angoscioso bisogno. Sono a tutti gli effetti “genitori non colpevoli, ma sofferenti” (Ferro, 2002).
Tuttavia la tendenza antisociale può venire interpretata come un messaggio di speranza e in tal senso si può considerare in un'accezione positiva. Il bambino deprivato ha generalmente perso la capacità di sperare ancora che la vita possa riservargli qualcosa di buono. È solo quando assume comportamenti antisociali che manifesta la speranza, in questa chiave atti come il furto e la bugia possono essere letti come il desiderio di riavere qualcosa che si è perduto “Il bambino che ruba cerca la madre sulla quale ha dei diritti” (D. W. Winnicott, 1939a, p. 159).
Molti dei minori seguiti nel S.I.S.Mi.F. di Roma erano autori di furti, promiscuità sessuale, bugie, incontinenza, sporcizia, disordine e, non da ultimo, di serie difficoltà scolastiche. Spesso il loro comportamento portava a delle forme sintomatiche particolari e strutturate: bambini a volte ingombri ed obesi, che avendo vissuto un certo grado di deprivazione, hanno messo in atto una “coazione a riparare” la deprivazione subita dall'ambiente attraverso il cibo e la sua utilizzazione distorta.
La tendenza antisociale presuppone pertanto l'esistenza di qualcosa di buono che è andato perduto. Il bambino che rompe e distrugge ogni cosa, che già a dieci anni assume droghe e ha una vita sessuale simile a quella degli adulti, manda un estremo segnale: tali comportamenti, oltre ad essere la manifestazione di un disagio, sono anche segnali di una forte richiesta di aiuto che si contrappone al dolore che viene vissuto. Quando il bambino si trova nel momento della speranza percepisce una situazione nuova che può essere propizia, trova una spinta a ricercare l'oggetto perduto, riconosce la distruttività implicita nel suo comportamento e di conseguenza sollecita l'ambiente affinché sia in stato di allerta e si organizzi a sopportare il danno.
Spesso, insieme all’équipe coinvolta nel lavoro di supervisione, si è tentato di interpretare segnali di distruttività e di comportamento antisociale o addirittura autolesionistico come degli inviti mascherati rivolti al "curante" affinché si mobiliti e aiuti il soggetto a prendersi cura di sé. Quindi, se il contesto regge, il bambino si troverà a mettere più volte alla prova l'educatore per verificare se è in grado di tollerare l'aggressione, di prevenire o riparare la distruttività, di sopportare il danno, di riconoscere l'elemento positivo della tendenza antisociale e di salvaguardare l'oggetto che bisogna cercare e trovare. Se le condizioni sono favorevoli e il danno non è irreparabile, il bambino può trovare nell'educatore e nell'équipe dei curanti un sostituto dell’oggetto, accessibile e disponibile su cui trasferire le sue richieste. In questo rapporto il bambino deve essere in grado successivamente non solo di trovare la speranza, ma anche di provare la disperazione di aver perso il primitivo ed originale oggetto d'amore.
“Quando gli educatori e gli operatori di una comunità conducono il bambino attraverso tutti questi processi, essi fanno una terapia che è sicuramente paragonabile al lavoro analitico” (D. W. Winnicott,1956, p.165).
I bambini, con il loro stravagante, assurdo e a volte brutale comportamento, lanciano un messaggio di disperazione, chiedono di essere aiutati a capire e a rendere pensabile quello che provano; l'unica via che sono capaci di trovare per ottenere questo è di farlo vivere a qualcun altro al loro posto. Se l'educatore e le altre figure professionali sono in grado di sopportare l'impatto emotivo scatenatosi in questo processo e di restituirlo pensato ed elaborato al bambino, solo allora egli potrà a sua volta sperimentare la pena psichica della sua storia, senza esserne sopraffatto.
Situazioni di assoluta deprivazione come quelle a cui ci siamo riferiti ci fanno riflettere sulla valenza del lavoro svolto in ambito psico-socio-educativo in un servizio sociale come il S.I.S.Mi.F., quando il suo intervento si attenga strettamente al bisogno di stabilità e di continuità del bambino deprivato. Come hanno osservato numerosi studiosi, nei casi di utenti molto gravi - e non solo in questi – lo strumento interpretativo ha un'efficacia del tutto secondaria rispetto alla capacità contenitiva della figura di riferimento, sia sotto il profilo della capacità di provare empatia e di ascoltare profondamente l'altro, sia relativamente al permettere all’utente di sperimentare fiducia e sicurezza attraverso la stabilità e la prevedibilità del setting, consentendogli di vivere quel senso di accudimento primario che gli è stato negato. Sotto questo profilo l'educatore professionale è in grado di offrire queste due forme di accoglienza, nel rapporto e nel setting, e può facilitare negli utenti un percorso di crescita che è paragonabile al processo terapeutico e che consente una reale trasformazione di aspetti profondi del sé.
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