Il "fare"delle arti terapie

IL FARE DELLE ARTITERAPIE 

di Giancarlo Santoni



Alcuni spunti di riflessione sulla operatività nelle arti terapie.

I nostri utenti arrivano con spiegazioni del mondo, di sé, del problema che li porta da noi e con spiegazioni di queste spiegazioni; anche noi possediamo spiegazioni di noi stessi e del mondo, della situazione che ci viene proposta, del contesto della cura. 
Molti sono i piani su cui lavorare contemporaneamente: il verbale, il non verbale (respiro, postura, ritmi dei gesti, distretti....), la prossemica (l'uso dello spazio fisico della stanza, l’avvicinarsi o l’allontanarsi al fine di trasmettere messaggi diversi), il tonale (tono, tempo, ritmo e volume). 
I contenuti espliciti, “i fatti” servono da trama per affrontare la complessità del processo arte terapeutico; il lavoro avviene, comunque, oltre che attraverso le cose dette (come e quando vengono dette), anche tramite la relazione con il terapeuta, e quando si lavora in gruppo tramite la relazione paritaria, anche se non identica, tra tutti i partecipanti agli incontri. E' vivendo la relazione che possiamo fare ipotesi sugli sviluppi dell'impegno terapeutico. Il lavoro con le arti terapie ha a che fare con le operazioni insite nell'azione del conoscere.
Tanti sono i livelli di analisi compresenti, che agiscono in maniera sia simultanea che consecutiva, utilizziamo dunque più punti di osservazione: 
- le idee dell’arte terapeuta su di sé, sul mondo e sul processo arte terapeutico (e con il termine "idee" comprendiamo anche emozioni e schemi d’azione). In quanto clinici, abbiamo idee sugli esseri umani, "umani in divenire", attenti a non limitare con l'uso della parola "essere" il solo concetto di mente come sistema dinamico in cui sviluppo e cambiamento sono considerati intrinseci alla stessa evoluzione dell'uomo. Pensando inoltre alla terapia come a un processo non triviale, ma paradigmatico e quindi non già ripetibile, diventa fondamentale farsi delle domande sulle sue operazioni costitutive quali l'insorgenza di sintomi, il cambiamento, le idee sul processo terapeutico e, ancora più nello specifico, quali persone sono presenti all’incontro di terapia, come leggere e interpretare quello che ci viene detto, come costruire una situazione evolutiva, come utilizzare la nosografia e la/le diagnosi, quali momenti di valutazione considerare importanti. Domande sulle operazioni cliniche (come funzionano le arti terapie?) e sulla nostra personale teoria della cambiamento; idee sul contesto in cui si opera; idee su di sé e sull'altro; 
- le idee dell'utente, le modalità di organizzare il proprio mondo, di elaborare e organizzare la propria conoscenza, le azioni che ha già messo in atto per tentare di risolvere i suoi problemi, le spiegazioni sulla sintomatologia, sul contesto e sulla richiesta di cura, sul terapeuta stesso; la sua disponibilità o meno a coinvolgere l'altro nel suo gioco ecc.; 
- le idee/relazioni che emergono dall'incontro tra terapeuta e utente; 
- la capacità riflessiva di uno, dell'altro, di tutte le persone presenti all'incontro che spinge a rintracciare il percorso e le scelte che hanno portato a quel processo e non a un altro.
L'autoreferenza del sistema terapeutico intesa come la capacità di un sistema sociale di definire la propria identità, cioè di trovare in se stesso una rappresentazione di sé e dei suoi presupposti, regole, progetti. La capacità di utilizzare metaregole per riflettere sulle regole esistenti e per validare la loro funzionalità (lavoro questo, più o meno esplicito, più o meno condiviso, sempre e comunque di pertinenza e responsabilità primaria dell'arte terapeuta); 
- le idee della comunità di appartenenza, della cultura interpersonale all'interno della quale ciascun individuo vive a e si sviluppa e cioè il linguaggio, i miti, la religione, l'organizzazione legale e produttiva, le regole, i valori, ecc.. 
Con molti studiosi affermiamo che il divenire della soggettività deve confrontarsi con la storia transgenerazionale (il cosiddetto romanzo familiare di freudiana memoria) e con le norme relazionali e i valori della cultura collettiva. Tali norme includono idee come sano/malato e il concetto stesso di cura. 
Così come interveniamo su più livelli di una realtà socialmente costruita, interveniamo anche su più livelli di "computo" del nostro sapere e sentire: 
- sul nostro sapere, conoscendo le proprie idee e valutando l'altro in base ad alcuni parametri che sono coerenti con i modelli di riferimento cui ci rifacciamo. Sapere che la terapia si forma su quello che l'altro ci offre, decodificandolo, attribuendo significati ai comportamenti, collegando le idee, o pensando e provando sensazioni; 
- sul sapere di sapere, inteso come la capacità riflessiva che porta a rintracciare il percorso e le scelte che hanno condotto a quel processo e non a un altro (le idee sulle idee, la diagnosi della diagnosi, la valutazione costante del processo che si è venuto a creare, le categorie impiegate, le ridefinizioni proposte); 
- sul sapere di non sapere: è evidente che non possiamo conoscere l'altro se non superficialmente, conosciamo una situazione ci viene presentata solamente attraverso quello che l'individuo o la famiglia ci vogliono dimostrare che ciò che l'incontro fa emergere. Così, allo stesso modo, non possiamo conoscere tutto di noi, né le collusioni in cui possiamo cadere rispetto a determinati temi o processi; 
- sul non sapere di sapere, inteso come la mancata assunzione di responsabilità rispetto a sensazioni o idee che possiamo avere su ciò che ci accade, su ciò che la situazione e l'impegno arte terapeutico hanno scatenato; 
- sul non sapere di non sapere, cioè la cecità inevitabile nei casi in cui non ci accorgiamo di non accorgersi di alcune caratteristiche dell'utente con le quali colludiamo. Si tratta di un presupposto "ignorante" della nostra conoscenza, che accetta la presenza di zone cieche e di collusioni non eliminabili e quindi limite e inesorabile alle griglie per leggere e interpretare le situazioni cliniche. 
Né i problemi né le soluzioni sono entità ontologiche, nessuna soluzione può essere giusta in senso definitivo. Nel lavoro arte terapeutico si deve comprendere che s’interviene sulle mappe di mappe del mondo che non funzionano più e che hanno condotto il sistema nel circolo vizioso di una autovalidazione ricorsiva.
Considerando la persona come un sistema in divenire regolato da leggi di organizzazione e modificazione strutturale, possiamo sostenere che la sofferenza psichica diventi qualcosa che accade nell'ambito di queste leggi. Ogni patologia è la dimostrazione della crisi di un sistema conoscitivo, un circolo vizioso di autoinvalidazione ricorsiva, una prospettiva autoinvalidantesi tale per cui il punto di vista del sintomo diventa lo stesso punto di vista con cui si guarda al sintomo, gli studiosi propongono di sciogliere tale nodo attraverso l'attivazione di metaregole e l'acquisizione della capacità di osservare i propri processi conoscitivi. 
Potremmo quasi dire che con gli utenti ci troviamo di fronte a “psicologi ingenui” che raramente hanno riflettuto sulle proprie modalità di pensiero (ricordo che pensiero ed emozioni vengono considerati come due lati della stessa medaglia). A loro proponiamo di diventare pensatori più sofisticati, coinvolgendoli in maniera più o meno esplicita in una riflessione comune sui processi di organizzazione e assimilazione dell'esperienza. A volte ci propongono un dualismo stringato (o bianco o nero, o buono o cattivo), una casualità stringente (a causa b che darà origine a c) e un pensiero deduttivo ripetuto (dalle teorie i fatti), accadimenti definiti oggettivamente e costantemente reificati, anziché valutati rispetto a parametri culturalmente determinati. Noi accogliamo le loro descrizioni per proporre modi alternativi di leggere l'esperienza, e questo processo non è solo razionale né tanto meno svolto utilizzando unicamente il verbale.

*Già pubblicato su “Artiterapie” N.°7/8-2002 Reg Trib Roma N. 38/95