Ermeneutica Delle Artiterapie

ERMENEUTICA DELLE ARTITERAPIE 

di Giancarlo Santoni



«L’unica conoscenza che valga
è quella che si alimenta di incertezza».


Edgar Morin

 

“Terapia” deriva da “therapéia” parola greca che significa “servizio”, ed esattamente questo intendevano i greci antichi quando curavano: rendevano un servizio. Qual è il senso della parola “terapia” nel nostro modello di intervento con particolare riguardo alle artiterapie? E’ un termine la cui accezione di significato è da chiarire, ma prima ancora si rende necessario delineare il campo di appartenenza delle terapie espressive.
Riflettendo sull’epistemologia della terapia scopriamo che il sistema di cura medicale è certamente il modello che più di altri ha influenzato i fondamenti psicoterapeutici. In un’ottica di tipo medico il concetto di guarigione e di salute sono equiparabili e rappresentano l’obiettivo stesso dell’intervento, in quanto esiste una relazione lineare tra la causa e l’effetto patologico. Da qui la concatenazione terapeutica: individuare la causa, eliminarla, raggiungere la guarigione. 
Non è così per la psicoterapia e neppure per le artiterapie. 
Nell’ambito psicologico-clinico a differenza dell’ambito medico, non è possibile stabilire una stretta relazione tra iniziativa terapeutica e ipotesi etiopatogenetica. Infatti, intervenire sulla sofferenza psichica non significa intervenire sulla causa specifica che ha determinato quel particolare effetto sintomatico. Procedere in questa direzione significherebbe, infatti, identificare la guarigione con il ripristino di una normale funzionalità psicologica o più semplicemente con la scomparsa dei sintomi, che è poi quel che avviene con un intervento di tipo medicale. In un’ottica psicoterapeutica, così come in quella delle artiterapie, l’individuo svolge un ruolo attivo nell’ambito della relazione, per il raggiungimento di un obiettivo di “normalità”; quest’ultima non si traduce nel conseguimento di una categoria predefinita, ma deve intendersi come una capacità di pensiero funzionale ed adattiva al contesto entro il quale si realizza lo stato di normalità. Quindi non un ritorno ad uno stato di benessere, ma un cammino verso il progressivo benessere.
Infatti le mete comuni a tutti i modelli di psicoterapia si possono riassumere così: a) incrementare un’adeguata immagine di sé come unità funzionale somato-psichica e la capacità di cogliere adeguatamente e senza distorsioni, segni e significati provenienti dal mondo esterno; b) migliorare la capacità di rapportarsi attivamente e proficuamente con il contesto: flessibilità, autonomia, capacità di apprendere dall’esperienza e fronteggiare adeguatamente stress e frustrazioni; c) acquisire un’identità definita e stabile, ma al tempo stesso capace di ulteriori cambiamenti; unitaria nella molteplicità delle funzioni, delle circostanze e dei contesti, articolata ma non scissa. 
La storia delle terapie parla di moltissimi “tipi” di cura, per cui va fatta immediatamente una precisazione: per terapia si intende un intervento fondato su basi teoriche esplicite, elaborate, condivise da una comunità di esperti e che tendono ad operare con strumenti e mezzi (tecniche) sulla realtà dell’individuo/i, al fine di favorirne la modificazione della condotta. Altra cosa sono invece i fattori terapeutici che fanno riferimento a realtà di varia natura (un’aspirina, uno psicofarmaco, una droga, una passeggiata, una vacanza, un lavoro, uno spettacolo, ecc.); anche questi fattori possono modificare la situazione di un individuo, ma attraverso modalità ed effetti non riscontrabili o non duraturi. Sorge immediata una domanda: i professionisti che utilizzano le artiterapie fanno ricorso a tecniche esplicite, elaborate e condivise o fanno leva su fattori terapeutici e quindi su esperienze più o meno “comuni” che producono cambiamenti non stabili nel tempo e non validabili?
Nel 1968 Bergè scriveva: “…le caratteristiche della personalità del terapeuta e la sua capacità di incontro e di comunicazione sono senz’altro più importanti del metodo”, dunque la figura del terapeuta, oltre al suo metodo, gioca un ruolo non marginale. Nel corso della storia dell’umanità sono stati vari ed eterogenei i tentativi dell’uomo di collaborare con i propri simili al fine di superare le difficoltà. Le forme di terapia, se analizzate in prospettiva storico-culturale, possono essere divise in due categorie fondamentali: psicoterapie di tipo magico-religioso e psicoterapie di tipo empirico-razionale. La distinzione è sicuramente culturale, dato che non la formazione, bensì l’iniziazione caratterizza il depositario del sapere magico-religioso; una psicoterapia di tipo empirico-razionale si configura invece come pratica a tutti accessibile, previa opportuna formazione, ed è pertanto esercitata da una figura intellettuale ben delineata. Quest’ultima ha visto la luce solo a partire dal secolo XIX°. Il primo tipo di psicoterapia invece si è sviluppato sin dagli albori della storia e continua ad essere presente nelle diverse società; chi la esercita non si pone quesiti su quali possano essere i fattori che concorrono alla ‘terapeuticità’ dell’intervento e non distingue tra strumenti come la suggestione, la manipolazione, la collaborazione; nella maggior parte dei casi non prende in esame la domanda centrale che qualsiasi terapeuta responsabile e consapevole fa a se stesso: “quale Uomo hai in mente quando curi un uomo?”

E’ chiaro che tutti noi che ci interessiamo alle terapie espressive non possiamo evadere con superficialità domande quali: posso disinteressarmi della autoconsapevolezza della persona con cui collaborando? Se opero questa scissione viene automaticamente compromesso l’esito del mio impegno? Posso incentrare il mio intervento sulla suggestione? Con quali esiti? E’ coerente utilizzare tecniche di influenzamento? Cosa significa utilizzare la suggestione da prestigio? Quando inizia la cura? Quando e come deve finire? A chi fa una domanda di aiuto generica per una necessità che non ha chiara, come debbo rispondere? E così via. 
Questi interrogativi, che hanno segnato la storia della psicoterapia, devono essere accolti da chi intraprende un cammino antico e nuovo allo stesso tempo come quello segnato dalle artiterapie, infatti sono molte le esperienze che hanno avuto breve corso a causa della carenza di caratterizzazione e profondità di pensiero. A mio parere nelle artiterapie continua ad essere assente un ‘sapere’ forte a vantaggio di un ‘fare’ che è sì importante, ma non sufficiente.
Concludendo un intervento che per motivi di spazio non può essere esaustivo, vorrei augurare un impegno per un approfondimento da parte di tutta la comunità scientifica che ruota intorno al mondo delle artiterapie, giacché non è ciò che sveliamo che può nuocerci, ma ciò che rimane oscuro.

Già pubblicato su “Artiterapie” 1-2/2002 Reg Trib Roma N. 38/95