Artisticamente: Psicoanalisi e arte

ARTISTICAMENTE: PSICOANALISI E ARTE 

di Salvatore Zito



CONVEGNO S.I.P.E.A
“ARTISTICA-MENTE”

Museo d’arte contemporanea di Roma
20 gennaio 2007

 

PSICOANALISI E ARTE: CREATIVITA’ E SVILUPPO DELLA SOGGETTUALITA’.

Innanzi tutto volevo ringraziare la Sipea e gli organizzatori di questo convegno, in particolare Giancarlo, per avermi voluto qui con voi a discutere e riflettere insieme. Certo, l’aggettivo “magistrale” posto accanto al termine “relazione” con la quale si annuncia nella brochure il mio intervento, ha suscitato in me un po’ di inquietudine, non fosse altro che per le aspettative che ho temuto potesse suscitare in voi una simile connotazione di quello che vi dirò. Tuttavia, in linea con uno dei motivi che oggi mi fa essere qui, lo leggo anche come manifestazione di quella stima e di quella amicizia che mi lega a Giancarlo, e si sa, agli amici non si fa fatica a perdonare un po’ di “ambivalente idealizzazione”. Oltre all’affetto però, ciò che mi ha fatto subito dire di si è stata la splendida opportunità che mi si offriva di poter declinare insieme due ambiti, psicoanalisi e arte, che da sempre direi, costituiscono due “oggetti” in grado di suscitare in me un’intensa fascinazione. Il primo al punto da divenire il mio “lavoro”, il secondo come territorio da esplorare, dominio da cui farmi sedurre, dispositivo estetico di cui godere. Ma è soprattutto del legame tra i due che oggi voglio parlarvi.

Psicoanalisi e arte: fascinazioni, fraintendimenti, applicazioni.

«Non si applica proprio nulla,
oppure lo si fa ed è peggio».
(C. Metz, Cinema e psicoanalisi)

E’ noto che Freud concepì la “psicoanalisi” come un’impresa non esclusivamente confinata  all’ambito della cura. Anzi, da questo punto di vista, nel 1926 in un divertente e originale saggio dedicato al problema dell’analisi condotta dai non medici, arrivò ad augurarsi un “destino migliore” per la sua “psicologia del profondo” che quello unicamente terapeutico:

“Noi non desideriamo affatto che la psicoanalisi venga inghiottita dalla medicina e finisca col trovar posto nei trattati di psichiatria al capitolo terapia (…) Essa merita un destino migliore, e io spero che lo avrà. In quanto psicologia del profondo, o dottrina dell’inconscio psichico, può divenire indispensabile per tutte le scienze che studiano la storia delle origini della civiltà umana e delle sue grandi istituzioni, come l’arte, la religione e l’organizzazione sociale. Penso che abbia già offerto a queste scienze un aiuto considerevole per la soluzione dei loro problemi, ma si tratta  solo di contributi minimi in confronto a quelli che si potranno ottenere quando gli storici, gli psicologi delle religioni, i glottologi, ecc. saranno messi in condizione di servirsi essi stessi del nuovo strumento posto a loro disposizione. L’uso terapeutico dell’analisi è soltanto una delle sue applicazioni, e l’avvenire dimostrerà forse che non è la più importante. Sarebbe comunque ingiusto sacrificare a una sua unica applicazione tutte le altre, solo perchè questo campo tocca la sfera degli interessi professionali dei medici ” (pag.413)

In realtà, sin dal 1905, sebbene con qualche titubanza, Freud si era occupato, ad esempio, di teatro, con un breve saggio intitolato “Personaggi psicopatici sulla scena” dove tra l’altro venivano riprese alcune antiche intuizioni sull’Amleto di Shakespeare. A testimonianza delle suddette esitazioni va qui citata la mancata pubblicazione di questo articolo, probabile esito di timori legati all’abbandono del terreno più solido della “scientificità”. Non bisogna dimenticare infatti che il Freud del 1905 non era ancora quello spavaldo scienziato sicuro di sé che risuona nelle parole del ’26: la psicoanalisi era ai suoi primi passi e la paura di “fare letteratura” era ancora piuttosto alta.

Ciò a cui mi sto accostando è in realtà un conflitto “ancestrale” e “fondativo” che attraversa il pensiero freudiano sin dai suoi esordi: il conflitto tra quantità e qualità; o per meglio dire: il confitto tra una certa concezione di scienza e l’aspetto più francamente ermeneutico del suo pensiero. Il fatto che Freud abbia così profondamente rivoluzionato la rappresentazione della malattia mentale e con essa la concezione stessa dell’essere umano ci fa spesso dimenticare le origini della sua formazione medica e scientifica; origini che sono fortemente radicate nell’universo fisicalista e positivista che caratterizzava il mondo accademico viennese della seconda metà dell’ottocento. Voglio qui brevemente ricordare che il modello di scienza insito in tale “weltenschaung”  guardava con estrema diffidenza verso tutto ciò che non poteva essere “oggettivamente” descritto, “precisamente” misurato e “rigorosamente” quantificato. Freud che aveva tra l’altro lungamente lavorato come neurofisiologo nel laboratorio del suo maestro Brucke, non poteva non aver assimilato, direi intensamente, come caratteristica mentale, come vero e proprio modo di pensare e ragionare, questa  peculiare “filosofia della scienza”. Certo, la creatività del genio consiste proprio nella sua capacità di andare oltre l’ovvio e lo scontato insito nella visione “comune” delle cose e la grandiosità di Freud consisterà proprio nello sforzo profuso per superare tale concezione che pure così profondamente gli apparteneva. Tuttavia, come tutti noi egli era anche figlio del suo tempo e in quanto tale non poteva non sentire il senso profondo di tale appartenenza. Senso e significato comunque “problematico” e sin da subito.

 Ad esempio può essere in tal senso interessante soffermarsi qui sul “complicato” rapporto che Freud intratteneva con i suoi resoconti clinici. E’ noto, e qui sento di toccare con mano un elemento molto personale che incrocia un motivo estetico di “contaminazione” soggettiva assai potente, che Freud fosse uno scrittore formidabile. Nessuno, almeno nell’ambito della oramai corposa letteratura psicoanalitica, può ancora oggi gareggiare con lui. Il suo stile chiaro ed elegante, la sua capacità evocativa fatta di immagini, metafore, descrizione d’ambienti e persone rendono la lettura delle sue opere, anche le più ostiche, un vero e proprio godimento estetico. Personalmente continuo a leggerlo e studiarlo con passione e piacere e tuttora traggo dalle sue pagine momenti di incantata delizia. Tuttavia, Freud ricavava da questa sua indiscussa capacità “narrativo/descrittiva” un certo turbamento. Sentite infatti cosa scrive a proposito dei suoi casi clinici:

Ho fatto la mia esperienza medica con le diagnosi locali e con l’elettroprognosi, al modo stesso di altri neuropatologi, così che sento ancora io stesso un’impressione curiosa per il fatto che le storie cliniche che scrivo si leggono come novelle e che esse sono, per così dire, prive dell’impronta rigorosa della scientificità” (Freud, 1895)

L’imbarazzo che è possibile leggere in queste righe è, secondo il punto di vista che sto cercando di illustrare, indicativo del conflitto cui facevo riferimento sopra, che è poi il conflitto che troviamo così intensamente coniugato quando, ad esempio, in seguito ad una borsa di studio, si reca  alla Salpetriere da Charcot. Qui l’impatto con l’ambiente parigino e la capacità istrionica e anticonvenzionale del grande psichiatra francese farà esclamare al giovane Freud:

“Charcot sconvolge semplicemente tutte le mie idee e i miei piani. Dopo certe lezioni esco da lui come da Notre Dame” (Freud, 1885)

Ciò che Freud sentiva messo pericolosamente (ma anche “gioiosamente” verrebbe da aggiungere!) in discussione, era proprio la propria tradizione formativa. In uno degli aneddoti più famosi durante una delle celebri lezioni del martedì Freud osò contestare apertamente le “dimostrazioni” del maestro francese: “Ma non è possibile, ciò contraddice la legge di Young-Helmoltz”! – disse. Memorabile fu la risposta di Charcot: “La teoria è una gran bella cosa. Ma non impedisce ai fatti di esistere”. Per chiudere questa lunga ma spero non inutile digressione parigina voglio ancora usare le parole di Freud che in una lettera alla fidanzata così descrive il suo primo incontro con Charcot:

“Alla dieci arrivò Charcot, un uomo robusto di cinquantotto anni (…) che porta il cilindro e ha occhi scuri e stranamente dolci (…) pochi capelli lunghi tirati dietro le orecchie, viso rasato, fisionomia molto espressiva, labbra turgide e sporgenti (…) Mi ha fatto molta impressione: diagnosi brillanti e un interesse evidente e molto vivo per tutto, qualcosa di molto diverso dalla distaccata superficialità cui ci hanno abituato i nostri “grandi” (Freud, 1885) 

Il sottile sarcasmo che è possibile cogliere in quel conclusivo “grandi” tra virgolette, riferito al mondo accademico tedesco, la dice lunga su che tipo di “complesso” si stesse agitando nell’intimo del giovane e ambizioso medico viennese. C’è da aggiungere che le lettere, soprattutto quelle giovanili, sono un grande serbatoio di informazioni per cogliere quale fosse il rapporto che il padre della psicoanalisi intratteneva con l’arte. Come per la sua formazione scientifica sappiamo infatti quanto egli fosse debitore alla “bildung” classica tedesca. L’eredità goethiana si faceva sentire tutta e aveva come conseguenza, ad esempio, l’impossibilità ad accostarsi ai movimenti pittorici del novecento senza provare “fastidio” se non proprio ostilità e disgusto. Se c’è un aspetto del pensiero freudiano da cui sia possibile evincere quanto egli fosse un uomo dell’ottocento questo è di certo il suo “gusto” artistico. Riguardo all’espressionismo i suoi giudizi sono a dir poco “feroci”: si tratta di “pura follia” propugnata da soggetti con “gravi difetti della vista” che non possono in alcun modo “pretendere il titolo di artisti”. 

Non genera dunque particolare meraviglia il fatto che quando Freud finalmente si decise  ad applicare il metodo “analitico” all’opera d’arte la sua scelta cadde su artisti quali Leonardo o Michelangelo.  Il saggio su Leonardo del 1910 rappresentò una svolta importantissima sui rapporti tra psicoanalisi e arte. Esso diede il via a quella corrente “applicativa”  che ebbe il suo culmine nel libro scritto a quattro mani da Otto Rank e Hanns Sachs nel 1913. Cito lo studio di Rank e Sachs non soltanto per l’importanza  storica che una tale opera oggi riveste ma perché attraverso questo testo è possibile cogliere quali fossero le aspirazioni del sempre più affermato movimento psicoanalitico internazionale. Basta scorrere l’indice dell’opera per rendersi immediatamente conto di quanto vasto fosse il campo a cui la psicanalisi aspirava di potersi applicare: miti, leggende, religioni, etnologia, linguistica, estetica, filosofia, etica, diritto, pedagogia. Nulla sfugge al vaglio dell’ambizioso “metodo” psicoanalitico. Si tratta in realtà del concretizzarsi di un progetto che aveva avuto il suo primo seme nella fondazione di Imago, la prima rivista di psicoanalisi fondata nel 1912 e diretta proprio dagli stessi Rank e Sachs. Un progetto che aveva come obiettivo quello di fare della psicoanalisi un dispositivo “culturale” di ampio respiro, come risulta chiaro dalle parole di Freud riportate all’inizio di questa relazione.

Non si può non dare atto a Freud di essere riuscito nell’impresa se, come afferma Mitchell, la rivoluzione freudiana è diventata patrimonio comune della nostra cultura oltre che l’unica “mitologia” in comune tra gli intellettuali occidentali. Il problema sorse in merito al concreto realizzarsi di questa aspirazione e purtroppo fu proprio il saggio su Leonardo a funzionare come “imprinting”. E’ noto che a causa di un errore di traduzione Freud prese un abbaglio e scambiò il nibbio leonardesco per un avvoltoio. Ciò lo spinse a “congetture sul significato dell’avvoltoio nel simbolismo egizio e indusse persino un suo amico a individuare la sagoma di un grande condor (animale mai apparso fra i ridenti colli toscani) nella forma delle pieghe di Sant’Anna”! (Gombrich, 1965, pag.20). Ma questo non sarebbe ancora nulla senza gli effetti per così dire “ideologici” che tale approccio contenutistico generò. Il “delirio” interpretativo che ne segui infatti portò con se come conseguenza la riduzione del fenomeno artistico alla mera psicologia personale dell’artista;  il che oltre che essere “scorretto” finiva pericolosamente per depauperare il contributo della psicoanalisi alla comprensione del fenomeno estetico, fornendo al contempo ai detrattori argomenti determinanti per contestarne la validità.

La creatività: un punto di vista psicoanalitico.

Eppure, la concezione freudiana del fenomeno artistico è qualcosa di più complesso della versione “ordinaria” che ne è stata diffusa. E’ interessante notare come ad esempio tra le motivazioni che spinsero Freud a respingere l’invito proveniente da Breton a partecipare ad una pubblicazione surrealista sui sogni vi fu la considerazione che:

“una pura e semplice raccolta di sogni senza le associazioni del sognatore (…) non mi dice niente, e non saprei immaginare che cosa potrebbe aver da dire a chicchessia” (Freud, 1932)

il che naturalmente lasciava intendere quanto da un certo punto di vista Freud considerasse “scorretta” una visione puramente contenutistica dello psichico. Da un fraintendimento all’altro, i surrealisti dal canto loro sembravano concepire, secondo il dettato bretoniano dell’automatismo psichico, la creazione artistica come pura “ex-pressione” di contenuti inconsci, confinando sullo sfondo gli aspetti formali dell’opera d’arte. Al contrario Freud, come aveva suggerito nel suo saggio sul “motto di spirito” aveva insistito sul fatto che il “gioco di parole” tipico del motto è debitore all’inconscio non del contenuto ma della sua forma; e questo accanto al tradizionalismo conservatore cui facevamo riferimento all’inizio appare sufficiente a spiegare la diffidenza verso “movimenti artistici quali l’espressionismo e il surrealismo, ingenuamente inclini a presentarsi come l’espressione diretta dell’inconscio che si fa arte” (Stramba Badiale, 2002).

In sostanza secondo Freud il processo primario di per sé non possiede alcun valore estetico. Non si tratta di una affermazione senza conseguenze.  Innanzi tutto ne segue che la creazione artistica è il frutto di un doppio movimento, avanti-indietro, tra modalità logica e antilogica; e come nel motto di spirito o nei sogni la forma figurativa della metafora gioca il suo ruolo nello spazio che si apre tra somiglianza e diversità, presenza e assenza. Oltretutto l’arte, al contrario dei sogni o dei motti di spirito possiede dei codici ben precisi che si sono andati costruendo nel corso dei secoli e dei millenni. Non è possibile e nemmeno pensabile che un’opera d’arte esista come qualcosa di primario “al di là” degli stili, le forme, i moduli e le strutture che sono alla base della stessa possibilità espressiva. Come ci ha insegnato Ernst Gombrich:

”Quello che conta (…) non è che il suo creatore, del resto come tutti noi, abbia un inconscio in cui continua a vivere una simbolizzazione arcaica: e nemmeno che (sempre come tutti noi) la mente del creatore partecipi delle qualità di Edipo, di Pigmalione, e magari di Barbablù. Quello che conta è che egli si sia trovato in una situazione in cui i suoi conflitti privati hanno acquistato importanza artistica. Senza i fattori sociali (cioè senza gli atteggiamenti, lo stile, le tendenze del gusto della sua epoca), le necessità private del creatore non potrebbero trasmutarsi in arte. In questa trasformazione il significato privato sparisce quasi completamente.” (Gombrich, 1965, pag.67)

Fa parte della storia dei paradossi del pensiero che sia stato uno studioso dell’arte ad insegnare a noi psicoanalisti qualcosa di molto importante su un uso meno “manualistico” del nostro strumento di lavoro. Ma la lezione di Gombrich è di quelle che non si dimenticano:

“Non si può mettere in dubbio che le scoperte di Freud ci abbian messi in grado di guardare più a fondo nelle consonanze e dissonanze dei molteplici strati significativi intessuti nel simbolo artistico. Esse ci hanno concesso di allargare di molto i confini del segno e di proporre nuovi problemi…” (pag.107/108)

 ma

“L’opera d’arte è un <segno aperto>, non ha limiti definiti, anzi può essere pienamente e totalmente vissuta e compresa solo quando noi cessiamo di chiudere la cataratta” (Gombrich, pag.97)

L’ammonimento di Gombrich affinché la psicoanalisi si ponga davanti all’opera d’arte o alle esperienze creative con minore furore “riduzionista” e maggior rispetto “interpretativo” si inserisce in un dibattito molto attuale in psicoanalisi. Tale dibattito che in un grande momento di fermento intellettuale sta attraversando tutto l’universo psicoanalitico si caratterizza per un approccio  orientato al superamento di quella che in epistemologia viene definita come logica “oggettivista”. Ciò ha come ricaduta immediata la messa in discussione di alcuni presupposti teorici  profondamente legati al background “positivista” che come vedevamo all’inizio rappresenta il tessuto originario del pensiero freudiano. Il superamento nella credenza “corrispondentista” che vedeva mente e mondo, osservatore e fenomeno, come rigidamente distinti e separati, sta conducendo la psicoanalisi verso una concezione meno ingenuamente orientata alla “verità” e più concretamente disponibile a prendere in considerazione la parzialità ma anche la ricchezza insita nella soggettività del proprio sguardo.

Naturalmente, tale cambio di paradigma non può non avere conseguenze anche sull’interpretazione che diamo della capacità dell’essere umano di “creare”. E’ noto che la concezione metapsicologica freudiana prendeva le mosse dalla meccanica pulsionale: ed in effetti la creazione artististica veniva letta come “sublimazione" delle mete pulsionali parziali. L’artista era colui che si assumeva l’alto compito di “guida dell’umanità nella lotta per il controllo e la trasformazione delle pulsioni anticulturali” (Rank, Sachs, pag.139). L’idea di fondo era molto chiara: al di là o sotto la parvenza di civiltà cova un nucleo rapace e animalesco che preme per la scarica e la gratificazione. Compito del processo di sublimazione è proprio questo “deviare” della meta pulsionale verso oggetti e modalità socialmente valorizzate. 

Una concezione “antiessenzialista” dello psichico al contrario, parte dal presupposto che l’essere umano si caratterizza per il suo insopprimibile bisogno di dare senso al mondo e a se stesso. Ed è precisamente nell’universo del significato soggettivo che si origina il conflitto, il fantasma e la sofferenza. Ma anche la sua capacità “creativa”.

Creatività e sviluppo della soggettualità.

Se assumiamo l’attività produttiva del Soggetto, nel senso della sua capacità di significare il mondo e se stesso, come il cardine di un modello “costruzionista” del rapporto tra mente e mondo, avremo gettato le basi per una concezione “autopoietica” (Maturana H, Varela F., 1980) dei sistemi viventi. L’uomo nella sua instancabile sete di conoscenza da continuamente significato alla realtà e all’esperienza che fa di questa. Ed è proprio nello iato tra significati consapevoli e significati “rimossi” che è possibile collocare l’origine degli atti di creatività semantica. Il rifugio in narrazioni “dolorose” ma conosciute essendo l’esito dell’equilibrio possibile per quella specifica soggettualità che ognuno di noi è. Senza fare il processo alle intenzioni infatti occorre ribadire che l’esigenza di una concezione non contenutistica della mente è essenzialmente ciò che ci protegge da processi di “espropriazione psichica” dell’altrui soggettualità. Siamo quello che siamo perché nell’evoluzione dialettica tra essere e divenire inscritta nella nostra “storia” abbiamo inconsapevolmente così significato il mondo e noi stessi.
In tale ottica, si potrebbe allora pensare alla creatività come alla possibilità che diamo a noi stessi di correre il rischio di ulteriori significazioni non previste. L’aprirsi di uno spazio emotivo e di pensiero che riappropriandosi della nostra “storia” renda nuovamente possibile il divenire della soggettualità.
Come avete scritto nella brochure di questo convegno, lo spirito creativo è innanzitutto confronto con ciò che è “inatteso” e “mutevole”, in questo senso potremmo intendere il “pensiero divergente” come una potenzialità presente in ognuno di noi, fortemente correlata con la disponibilità, affettiva e cognitiva a un tempo, a “rispecchiarci ed ad assumere come nostro ciò che siamo” (Minolli M., Tricoli M.L.2004). Tale maniera di concepire lo spazio interiore di libertà come manifestazione, risultato, di una non superficiale “presenza a se stessi” (Minolli  M., 2006, ) ci libera dalla schiavitù dell’assiomatico e restituisce al nostro sguardo tutto il valore fenomenologico del nostro dire “soggettivo”. Se infatti concepiamo la sofferenza come fedeltà inconscia a modalità strutturate di funzionamento, e cioè  “chiusura”, “unicità” di lettura, (Minolli M., 1993, pag. 45), allora ci mettiamo al riparo anche dall’idea che esistano contenuti che di per sé rappresentino soluzioni sbagliate o al contrario, migliori, più efficaci o più giuste. Il problema non sono mai i contenuti ma la rigidità con la quale li perseguiamo.
Naturalmente è questo il rischio insito in ogni interpretazione di tipo “riduzionista”; sia che questa abbia come oggetto il dolore individuale espresso nel sintomo che la creazione artistica in quanto tale. Nello specifico del prodotto artistico poi l’analisi dei contenuti che l’opera d’arte esprime nasconde un pericolo assai grave, ovvero la presunzione di poter giungere sempre e comunque alla conoscenza degli elementi ultimi, “profondi”, della creazione artistica medesima, perdendo di vista il fatto che come dice Gombrich:
“in ogni simbolo la molteplicità tocca l’infinito (…) così da escludere ogni idea di un segno che si ponga come limite” (pag.107)

Rispettare la soggettualità dell’essere umano, artista o meno che egli sia, comporta imparare a sostare con l’altro nella diversità della sua “alterità” che proprio perché “sua” non è iscrivibile nel “già dato” né tanto meno nella categoria del “pre-ordinato”.

Il soggetto come divenire.

Il paradosso costituito dall’insieme “continuità/cambiamento” che caratterizza gli esseri viventi sin dalla loro conformazione biologica è uno dei misteri più affascinanti che la nostra mente possa contemplare. Psicologicamente esso si esprime anche attraverso quella tensione che si genera in ognuno di noi quando avvertiamo lo scarto esistente tra il nostro bisogno di “divenire” e la paura che ci lega all’equilibrio identitario che sentiamo di non poter mutare. Tale dialettica tra stabilità e cambiamento è tuttavia propria del processo della vita. Come dice Sander:

“Non appena pensiamo alla vita (…) ci troviamo di fronte a un paradosso, anzi a un gran numero di paradossi (…) poiché il processo della vita richiede sia una costante continuità, sia un costante cambiamento. Si è infatti scoperto che ciò che sembra stabile, come ad esempio la struttura della materia del corpo è invece un flusso in continuo cambiamento. Le molecole che costituiscono il corpo oggi, non sono le stesse molecole che lo hanno costituito un mese fa. Un flusso di cambiamento che, nonostante proceda attraverso la disorganizzazione, l’eliminazione, la sostituzione, deve, paradossalmente, mantenere l’integrità organizzata e la coerenza vitale dell’organismo che sono essenziali per la continuità della vita” (Sander L.W., 2002, pag.270)

Ciò significa che al di là dell’esperienza fenomenologica personale, essere e divenire sono in realtà due facce della stessa medaglia. E’ nel processo della vita che i sistemi complessi, di cui certamente l’essere umano è un validissimo esempio, funzionano secondo principi di non linearità di cui sono parte integrante sia l’ordine che il disordine. Al contrario, la sofferenza, il dolore psichico sembrano proprio legati ad una “rigidità” tipica dei sistemi chiusi, (De Robertis D., 2005) dove la ripetizione e l’assenza di flessibilità la fanno da padroni. In questo caso lavorare per la trasformazione e il cambiamento significa anche accettare di convivere con l’incertezza e la confusione. Non è mai semplice, e per nessun analista. E’ paradossale infatti quanto sia “facile” non veder in noi stessi ciò che ci appare evidente nel dolore dell’altro.

Analista e paziente costituiscono un sistema dinamico estremamente complicato dove le connessioni reciproche sono continuamente attraversate da processi di mutua e autoregolazione. La consapevolezza di ciò rappresenta una conquista tutto sommato recente per la psicoanalisi. Tale “scoperta” (Tricoli M.L. (2001) esalta gli aspetti relazionali che sono alla base del nostro essere quello che siamo: noi nasciamo, cresciamo e “creiamo” all’interno di relazioni. Siamo soggettualità relazionale. Il cambio di vertice teorico che così si istituisce rispetto all’originaria concezione freudiana è evidente: lungi dall’essere concepita come universo “chiuso”, “isolato” che solo secondariamente si apre al mondo, la mente diviene intrinsecamente diadica, primariamente orientata all’umano.

Nel rapporto di cura scommettiamo con l’altro su una possibilità “creativa” che ci coinvolge in prima persona. E non si tratta di un processo unidirezionale. Diceva infatti Winnicott:

“un analista potrà essere un buon artista, ma mi sono spesso chiesto, qual è il paziente che vuol essere la poesia o il dipinto di un’ altra persona?”(Winnicott D.,1954, pag.347)

Il monito di Winnicott metteva in guardia dai pericoli di un’impostazione a senso unico. L’impressione è che gli psicoanalisti stiano imparando ciò che gli artisti hanno sempre saputo:

L’arte astratta non esiste - diceva Picasso,  si parte sempre - da qualcosa. Si può togliere, dopo, qualsiasi apparenza di realtà, ma l’idea dell’oggetto avrà comunque lasciato il suo segno inconfondibile. Perchè è l’oggetto che ha toccato l’artista, ha eccitato le sue idee, ha scosso le sue emozioni. Idee ed emozioni saranno alla fine prigioniere della sua opera; qualunque cosa diventino esse non potranno più sfuggire dal quadro; ne sono parte integrante. (Picasso, Scritti, pag.29)

L’opera d’arte diviene così il frutto di un incontro e l’artista sa bene che non può considerare in maniera puramente a-simmetrica questo contatto. Anzi, nel divenire del processo creativo  è spesso l’oggetto a imporre il proprio “carattere”, la propria “apparenza” fino a fare dell’artista lo “strumento” di un processo che lo supera. L’esito finale di questo “divenire” prevede sempre un “trasformazione” che coinvolge entrambi i protagonisti della dialettica creativa.

Per ciò che mi riguarda non conosco processi di cambiamento “qualitativamente” significativi per i miei pazienti che non abbiano rappresentato in parallelo mie importanti conquiste  personali.

Grazie.

BIBLIOGRAFIA

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