Per un profilo dell'educatore professionale



Per un profilo dell'educatore professionale



Avevano tutti fra i 16 ed i 18 anni. Provenivano dal carcere minorile, dalla casa di rieducazione, da istituti di assistenza. Elio, non riconosciuto dal padre, abbandonato dalla madre, una culla che prende fuoco, un incendio in cui rimangono bruciati mignolo e anulare del fanciullo ancora in fasce. Un incendio ritenuto doloso per sopprimere la testimonianza di una intemperanza giovanile di persona forse troppo rispettabile. Alberto e Franco figli di una maddalena e di padre ignoto, anzi di padri ignoti, poichè più di un maschio che in quei giorni ebbe rapporti con la donna, rivendicherà al momento in cui i due giovani inizieranno a guadagnare, una paternità.

Salvatore, anch'egli di padre sconosciuto e di madre di caratteristica denominazione nella nostra città di Roma, abbandonato agli istituti fin dai primi giorni di vita.

Mario, che ha seguito a Roma la madre profuga istriana, padre infoibato dai titini perché ritenuto fascista; e lei, colf a ore, trovata morta una mattina per fuga di gas.

Franco, un ragazzetto mingherlino che ritrovate anche in Sciuscià di De Sica, risucchiato dalla sua Liguria a causa degli eventi bellici, anzi ladruncolo a danno delle Forze Armate Alleate, raccolto nella "Repubblica dei Ragazzi" di don Antonio Rivolta e di mons. Patrik Carrol Abbing.

Avevo 27 anni, e un amico pedagogista, conosciuto durante l'Università a Milano, mi aveva chiesto di scendere a Roma per aiutarlo nell'organizzazione dell'Associazione dei professori cattolici.

Un altro amico, a Roma, medico, mi fece contestualmente conoscere questo gruppo di giovani di cui, lui, si stava occupando: mi chiese se volessi restare.

Con qualche disappunto dell'altro amico, restai a "Villa Agnese", una casa-famiglia, per una quindicina di giovani (si noti, siamo negli anni 50, un altro anno giubilare). La casa-famiglia era stata donata da Pio XII, con un lascito della statunitense Agnese Licoln e per iniziativa di un monsignore curiale, allora minutante e di nome Agostino Casaroli.

Che cosa in particolare mi abbia determinato nella mia decisione, ancora oggi, talora me lo chiedo; ma sono felice della scelta che ho fatta. Certamente la generosità espansiva del ramo materno emiliano e la sensibilità religiosa e sociale del ramo paterno veneto.

Ma forse anche il bisogno di uscire verso un contatto sempre più intenso con gli altri per andare oltre il gradino della porta di casa ove la mamma, timorosa che un soffio di vento turbasse la mia vita, mi tratteneva a giocare tutto solo con pochi o senza amici, bisognoso, dunque, di contatti, di riuscite, bisognoso degli altri per essere pienamente me stesso.

Un giorno Adelio si azzuffa cori Franco, botte da orbi, come si suol dire; non si riesce a farli smettere, parolacce, sberle, cazzotti; mi getto anch'io nella mischia e picchio sodo tutti e due; ne esco un po' malconcio; un vestito in tintoria, ma la smettono sorpresi da una gragnola di colpi di cui non capiscono la provenienza.

Un altro giorno Adelio vuol conoscere le notizie che, secondo lui, avrei sulla di lui paternità: estrae una pistola. «O mi dici quello che sai, o sparo».

La pistola era vera, ma scarica! Mamma mia, che paura, comunque.

Ma senza batter ciglio!

Adelio e Franco hanno messo in piedi delle buone famiglie, mantenute con un onesto e solido lavoro; Franco è già tornato alla casa del Padre: una cirrosi epatica causata da un bere, negli ultimi anni, un po' eccessivo.

Alberto e Franco, fratelli: anch'essi con famiglia; l'uno si incontra con una giovane anch'essa abbandonata dal padre, l'altro commosso ed emotivamente preso dalle vicende di una giovane donna con figli, piantata da un altro uomo; ad essa darà altri figli...

Con Salvatore stavo trattando la questione relativa alla madre, alla quale rimproverava di averlo abbandonato, dopo esser stato misconosciuto dal padre.

Tentando di far riflettere sulla situazione materna e sulle difficoltà dalla stessa mamma vissute, improvvisamente mi sento arrivare un potentissimo ceffone in faccia.

Nessuna reazione. Qualche minuto dopo Salvatore si scioglie in pianto dirotto.

Non ha avuto una vita familiare felice e ancor oggi, per quanto a mia conoscenza, soffre.

Mario faticava ogni giorno come facchino ai consorzi agrari e non aveva fiducia nella vita: «Cosa posso offrire a una donna per formare una famiglia?». Aveva poi frequentato la scuola serale, era stato promosso al ruolo impiegatizio, si era sposato ed aveva avuto una bella figliola: lo colpisce una forma cancerosa all'intestino.

Lo Vidi l'ultima volta la mattina prima di lasciarci: era sereno e felice, finalmente! Una felicità aperta sull'infinito ...



RIVALUTARE IL RUOLO DELL'EDUCATORE NELLA SOCIETA'



Mi scuso se ho raccontato di me anziché prospettare il profilo dell'educatore professionale; ed anzi ritengo che a questo punto potrei anche chiudere l'intervento.

Nell'essenza di ogni piccola esistenza sono contenuti gli elementi per capire il senso della vita e della realtà e nella fattispecie nella piccola esistenza di ognuno di noi gli elementi per capire quale sia il profilo di un Educatore professionale nell'ambito dell'educazione non formale.

Si tratta di ricercarlo e di scoprirlo attraverso un vaglio critico, una estrazione dell'esperienza che non è mai solo fattuale, ma che è sempre, nell'uomo, anche razionale.

Teoria e pratica sono due pure astrazioni, inesistenti; esiste, a me sembra, nella temporalità e nella spazialità l'esperienza, esperienza che, criticamente vagliata, offre i concetti che sono realtà mentali e logiche, con i quali, sui quali concetti si può discorrere validamente e fondatamente, radicati, come sono nell'esperienza e nel seno trascendente dell'Assoluto di cui sono, infatti manifestazione visibile e mediata..

In sintesi, dunque, si potrebbe dire: essere in continua crescita nella completezza della propria umanità (corporea, affettiva, intellettiva), essere con nelle vicende della vita quotidiana. Poiché non basta discorrere di educazione e di educatori per comprendere lo specifico dell'Educatore professionale.

Una delle crisi che mi ha colpito è stata, negli anni, quella relativa alla fondazione o giustificazione di una professione, quale quella dell'Educatore basata sull'esistenza di sofferenze e difficoltà, quasi come realtà ineliminabili e fatali nella vita umana ove, certamente, come la luce sorge dalle tenebre, così dalla sofferenza si passa alla gioia.

In uno dei Venerdì Santo della sua vita, Giovanni XXIII, e ne fui testimone, disse che la realtà del Cristianesimo non sta tanto nel pianto del Venerdì Santo, quanto nell'esultanza della Pasqua.

Non si può fondare una professione sul negativo. Nemmeno il medico è solamente per la malattia, ma soprattutto per la salute.

Se la nostra organizzazione sociale, anziché costruire brefotrofi, collegi, istituti assistenziali oppure discoteche e pub, avesse costituito posti di lavoro per Educatori professionali nei quartieri, nei villaggi, nelle città, ed aperto spazi a disposizione e in aiuto a situazioni difficili, a persone con responsabilità superiori alle loro capacità, ai giovani alla ricerca di dialogo, di relazioni e di significati, probabilmente molte tragedie non si sarebbero compiute o si sarebbero tramutate più rapidamente in gioiose vicende: si tratta di riscattare al valore positivo dell'educazione anche il banale ed il rutinario della vita di ogni giorno. Se una società civile non riesce a riconoscere e a sorreggere, a ricompensare professionisti che si dedicano a questo lavoro, riparatorio e/o costruttivo, si tratta di una società che è già immersa nelle barbarie, tanto più gravi in quanto più raffinate.

Del resto la storia e le storie recenti ne sono testimonianza, ove persino la fede religiosa diviene pretesto per dividere, anziché per unire.

Un Educatore serio e valido vale in denaro quanto un manager, anche se non produce ricchezza ed utilità ma felicità e serenità. La società ha bisogno di professionisti seri: la serietà non deriva solo dalla preparazione e dalla formazione, ma anche dalla motivazione.

Non credo più alle motivazioni altruistiche che sono evasive e camaleontiche, non si sa cosa nascondano sotto.

Credo di più alle motivazioni personalistiche: la ricerca della pienezza di sé, l'aspirazione alla perfezione che per essere perfezione della persona che compete ad ogni essere umano che non può che essere, di conseguenza, anche pienezza di comprensione e di trasposizione verso l'altro di se stesso, simile a sé, da amare come sé; per amare come sé, è necessario sapere cosa sia l'amore di sé. Un sé, microcosmo, immagine del macrocosmo, aperto, quindi, alle dimensioni possibili della trascendenza e dell'infinità.



IL VALORE DEI FATTI E DELLE ESPERIENZE



Dal punto di vista cristiano mi sembra si possa affermare che la specificità cristiana, appunto, non è data dall'adesione ad una concezione della realtà, della vita che guarda all'Assoluto e alla trascendenza e che riconosce la socialità nell'uomo.

Anche la più alta filosofia è giunta a ciò rendendolo patrimonio dell'uomo in quanto tale.

Essere cristiani significa sapere che “ En archè en o Lògos, kaì o Lògos en pròs tòn Theòn, kaì Thehòs èn o Lògos. Kaì o Lògos sàrx egèneto (si noti sàrx egèneto: ecco lo scandalo!) kaì eskènpsen en emfn” (ancora più scandaloso: mescolarsi con noi!)

In pricipium erat Verbum et Verbum erat apud Deum et Deus erat Verbum.Hoc erat in principium apud Deumi Et verbum caro factum est et abitavít in nobis».

Non, dunque, la parola detta, anche riflesso e definizione di un concetto, ma la parola interiore che si fa carne, che si realizza che entra nella storia e la costruisce, l'Assoluto che si svela nella crudezza della sensibilità materiale, sanguinante di pianto ed esultante di sorriso.

Questa è il significato di Franco, Alberto, Salvatore, Mario e degli altri che ho conosciuto, che voi educatori avete conosciuto e con cui ho condiviso, partecipando alla loro esistenza momenti di un Assoluto che ci trascende, ma che ugualmente ci compenetra e che fianco a fianco partecipa.

Ti cammina accanto, ti accompagna lungo la strada polverosa verso Emmaus... non parla, ma agisce, spezza il pane ... ; da questa azione si fa riconoscere, non dal suono delle parole.

Di parole se ne son fatte fin troppe; è ora di cominciare a cambiare maggiormente e in meglio il modo di essere e il modo di vivere.

Penso che non siamo quello che diciamo di essere, quanto piuttosto quello che facciamo: le parole più sincere che pronunciamo, sono, probabilmente quelle che diventano opere: la verità che si fa amore e per di più amore disinteressato, che non attende gratificazioni, anche psicologiche. Il rinvio al mio grandissimo omonimo del cui nome vado, penso giustamente, orgoglioso, è qui, a proposito di Amore, d'obbligo.

Una scoperta del valore dei fatti e delle esperienze, antica, aristotelica, confermata dalla rivoluzione cristiana, da Paolo per il quale la Carità la vince su tutte le altre virtù, è scoperta rivivificata da Tommaso l'Aquinate. Ed anche lui, per quel che so, a dar troppa importanza ai fatti, al vissuto, al sensibile, all' a posteriori per contro alle idee pure, all' a priori, qualche scappellotto dal suo vescovo quando insegnava a Parigi se lo prese.

Succede, cari amici educatori, succede, e non aspettatevi, se sarete buoni professionisti, di essere approvati poiché se la vita sociale fosse quale dovrebbe essere, la vostra opera sarebbe assai differente ed assai meno faticosa di quello che realmente è.

Osservate: perfino i politici, quelli buoni per antonomasia, raramente o mai quando si interessano al nostro campo di lavoro, sottolineano gli aspetti della professionalità ed i professionisti.

E per il futuro, parafrasando Churchill, aspettatevi lotta, difficoltà, incomprensioni, fastidio e pochi soldi, ma, certamente, tanta serenità e felicità interiore.

Se è vero, come si dice, che un buon educatore è persona capace di fare bene almeno altri due mestieri o professioni, se questa prospettiva non vi soddisfa, affrettatevi a trasmigrare verso altri lidi.

Paolo Marcon, Per un profilo dell'educatore professionale, in Persona Comunità, a.2, 1998, n.3 pp. 8-13